L’organizzazione: fattore chiave dello sviluppo dei sistemi agroalimentari localizzati

L’organizzazione: fattore chiave dello sviluppo dei sistemi agroalimentari localizzati

Introduzione1

La dottrina economica propone diversi approcci per qualificare ed interpretare lo sviluppo economico di specifiche aree territoriali. Si ricordano, tra i principali: i distretti marshalliani, i sistemi produttivi locali ed i cluster. Tali modelli sono accomunati, in letteratura, da tre caratteristiche, vale a dire dalla presenza di:

  • economie esterne, determinate dalla prossimità degli attori coinvolti nel sistema produttivo;
  • conoscenze non trasferibili, vale a dire le competenze degli individui e delle imprese;
  • rapporti cooperativi che si instaurano tra le imprese ed il mercato.

Ciascuno di questi approcci ha trovato spazi di applicazione anche nell’ambito dell’economia agroalimentare per interpretare e classificare le dinamiche produttive di aggregati a livello territoriale di piccole imprese agricole e alimentari2.
Un esempio sono i Syal (Systèmes agro-alimentaires localisés), apparsi nel 1996 nella letteratura francese e definiti come “des organisations de production et de service (unité de production agricole, entreprises agroalimentaires, commerciales, de services, restauration) associées par leurs caractéristiques et leur fonctionnement à un territoire spécifique. Le milieu, les produits, les hommes, leurs institutions, leurs savoir-faire, leurs comportements alimentaires, leurs réseaux de relations, se combinent dans un territoire pour produire une forme d’organisations agroalimentaires à une échelle spatiale donnée” (Cirad-Sar, 1996; Muchnik, Sautier, 1998). Si può osservare che due sono le parole chiave in questa definizione: “organisation” e “territoire spécifique”.
Se, inizialmente, il paradigma del Syal veniva accostato al concetto di cluster (Porter, 1998), con il quale si riteneva condividesse la condizione della prossimità spaziale degli attori coinvolti nel modello produttivo, successivamente, si è convenuto che la specificità del Syal è riconducibile, piuttosto, alle caratteristiche territoriali dei prodotti, delle persone, delle istituzioni e delle relazioni sociali che creano i legami tra alimenti tipici e territori. In questa fase, le ricerche si sono concentrate sul rapporto tra i Syal e i processi di qualificazione dei prodotti territoriali, in cui l’azione collettiva è volta all’ottenimento del riconoscimento di origine. L’emergere di nuove istanze collegate allo sviluppo rurale ha, più recentemente, accostato i Syal ai temi della sostenibilità, della multifunzionalità e della qualità dei prodotti, riconoscendo a questi modelli produttivi la capacità di evolversi anche in queste direzioni. Un Syal può essere visto, perciò, come “un processo in costruzione, cioè uno spazio territoriale costruito dai rapporti tra gli attori che condividono interessi collegati ad uno o più settori agro-alimentari rurali” (Boucher, 2007). Questa definizione contribuisce, tra l’altro, a spiegare come i Syal possano essere soggetti ad una doppia interpretazione: essi, infatti, sono un oggetto concreto, cioè un gruppo di attività agro-alimentari con una collocazione territoriale, ma allo stesso tempo, sono un approccio, cioè un metodo di analisi dei processi di sviluppo delle risorse locali, utile alla formulazione di strategie di sviluppo (Muchnik et al., 2008; Muchnik, 2009; Fourcade et al., 2010).
In questi processi un ruolo importante è svolto spesso dallo Stato e da altre Istituzioni (ad esempio, le Regioni), che intervengono incentivando l’aggregazione delle imprese, realizzando infrastrutture di collegamento con i mercati, promuovendo e regolando le forme organizzative secondo le quali le imprese, formalmente o informalmente, intrattengono i rapporti all’interno del sistema.
Interessanti, a questo proposito, sono gli interventi dell’Unione Europea diretti a regolare l’offerta e a distribuire gli aiuti ad alcune filiere (pomodoro, semi oleosi, ortofrutta, olio), con riflessi evidenti a livello territoriale dove viene incentivata la concentrazione e l’organizzazione delle relazioni tra le imprese beneficiarie. Oggi tali interventi sono estesi a tutti i settori in quanto, venendo meno la protezione alle frontiere e il sostegno dei prezzi, la competizione è aperta a livello globale: una competizione non solo tra imprese, ma tra sistemi produttivi. I modelli organizzativi contenuti nei regolamenti di attuazione della riforma della Politica Agricola Comune per il periodo 2014-2020, sono quelli della contrattualizzazione, delle organizzazioni di produttori (OP) e dell’interprofessione (OI), che alimentando il senso di appartenenza al territorio e, puntando sulla comunanza di interessi delle imprese partecipanti, hanno una evidente ricaduta a livello locale.
Obiettivo di questo lavoro è di analizzare il ruolo che potrebbero svolgere le istituzioni, pubbliche e private, nella formazione di un sistema agroalimentare localizzato. Nella prima sezione presenteremo i diversi approcci al modello, in seguito analizzeremo il ruolo che potrebbe svolgere una istituzione come l’UE portando, come esempio, il caso del distretto del pomodoro da industria localizzato nel Nord-Italia. Infine, l’argomento trattato nella prima parte viene ripreso, al fine di dimostrare che la risposta in termini di organizzazione può consentire la nascita di un sistema agroalimentare localizzato, mentre il fattore prossimità tra le imprese presenti è necessario ma non sufficiente.

Territorio e organizzazione nella formazione di sistemi agroalimentari localizzati

Nelle success stories contenute in molti studi sui sistemi agroalimentari localizzati, sono quasi sempre descritte concentrazioni in aree delimitate di piccole imprese agroalimentari impegnate nella trasformazione della produzione agroalimentare locale (Perrier-Cornet, 2009). In questi studi, la dimensione che emerge prepotentemente sulle altre caratteristiche del sistema è il “territorio” come spazio nel quale è avvenuta la localizzazione delle imprese interessate, permettendo lo sviluppo di esternalità positive grazie alle sinergie prodotte dalla comunanza di interessi e dai flussi di informazioni che intercorrono tra le stesse imprese (Requier-Desjardins e Colin, 2010).
Rispetto agli altri settori produttivi, i sistemi agroalimentari presentano, infatti, alcune peculiarità che influiscono sia sulle modalità di aggregazione delle imprese sia sulle caratteristiche dei prodotti che derivano dall’attività delle stesse. La materia prima utilizzata infatti, sia essa vegetale o animale, è un organismo vivente le cui caratteristiche sono fortemente dipendenti dalle risorse naturali presenti nel luogo dove sono prodotte e, in generale, dal territorio dove sono collocate. Il concetto di territorio trova, nell’economia agroalimentare, una espressione particolarmente appropriata nel termine francese terroir con il quale sono individuati, insieme alle risorse naturali, anche gli aspetti culturali e sociali che contribuiscono al raggiungimento delle caratteristiche del prodotto agroalimentare. Tra tali aspetti, assume un ruolo particolarmente rilevante il savoir faire, costituito dalle conoscenze ed abilità tecniche delle risorse umane insistenti sul territorio e dalle sinergie che derivano dalla loro condivisione. A causa di tali interconnessioni, le caratteristiche, la storia, il nome del prodotto agroalimentare sono legati al territorio in cui si colloca, contribuendo a creare la reputazione dell’area insieme alla sua. La valenza culturale e sociale delle produzioni territoriali ed il ruolo della dimensione collettiva delle conoscenze produttive hanno dato vita ad un ricco filone di studi della scuola francese che ha analizzato l’influenza del territorio sulle produzioni agroalimentari e, soprattutto, sui prodotti tipici le cui caratteristiche sono ricondotte a tre ordini di fattori: la specificità delle risorse locali; la storia e la tradizione produttiva; la dimensione collettiva e la presenza di conoscenze condivise a livello locale (Sylvander e Lassaut, 1994; De Sainte Maire et al., 1995; Sylvander, 1995; Bérard e Marchenay, 1995; Allaire e Sylvander, 1997; Barjolle et al., 1998; Casabianca et al., 2005). Il territorio, così inteso, diventa la variabile esplicativa del modello produttivo di un insieme di imprese concentrate in una dimensione geografica locale.
Anche gli studi su success stories di Syal presenti in paesi sottosviluppati o in via di sviluppo (America Latina e Africa) rivolgono la loro attenzione soprattutto alle relazioni tra le imprese entro lo spazio nel quale si sono concentrate in un’ottica, in questo caso, di modelli produttivi per le politiche di sviluppo locale (Bom-Konde et al., 1995; Cerdan, Sautier, 1998; Boucher, Requier-Desjardins, 2005a; Boucher et al., 2005 b; Requier-Desjardins et al., 2003; Mancini, 2013).
Muchnik, Cañada e Torres Salcido (2008) ampliano tale approccio localistico sostenendo che lo spazio di un Syal non debba necessariamente essere uno spazio continuo delimitato geograficamente, ma può essere un’area di riferimento ideale, sovente interrotta dal punto di vista spaziale, che costituisce un insieme grazie a dei riferimenti identitari comuni (Bonnemaison et al., 1999). Questo è molto importante perché si tratta spesso di organizzare, di articolare attività situate in spazi discontinui, dove la “territorialità” del Syal dipende dal sentimento di appartenenza e dalla comunanza di interessi di chi ne fa parte, formando delle reti sociali e forme di coordinazione economica che possono andare oltre i confini meramente geografici. Secondo questa impostazione non è il “territorio” che individua il Syal, ma il sistema di relazioni che, indipendentemente dal “territorio”, si stabiliscono tra le imprese che ne fanno parte.
Se la prossimità geografica nel Syal può considerarsi un elemento potenzialmente positivo derivante dai vantaggi della concentrazione territoriale, è quella organizzativa, alimentata dal senso di appartenenza e dalla comunanza di interessi, che fa interagire le imprese partecipanti e crea la spinta dinamica che consente al Syal di adeguare la sua organizzazione alle sfide dei mercati (Rallet, Torre, 2004; Torre, 2000). Il Syal può essere analizzato, infatti, come il risultato di un processo di cooperazione tra imprese aventi interessi comuni, localizzate su un territorio, che si organizzano e si accordano su norme e regole di produzione e di commercializzazione per ottenere un vantaggio concorrenziale collettivo rispetto ad altri agenti, concorrenti, potenziali o reali, esterni al territorio e/o che, pur localizzati nello stesso territorio, non aderiscono alle norme e regole che il Syal si è dato. La prossimità organizzativa è centrale nel processo di coordinazione degli attori del sistema e può avere confini locali, ma andare anche oltre. Il problema è stabilire fino a che punto può superare i limiti della prossimità geografica, rischiando di compromettere gli stessi valori su cui l’organizzazione si basa: il senso di appartenenza e la comunanza di interessi degli agenti del sistema (Rallet, 2002)3. Un ruolo importante in questo processo è svolto dalle Istituzioni che con, le loro politiche, possono incentivare lo sviluppo delle relazioni orizzontali (cioè, sul territorio) delle imprese, fornendo il quadro di riferimento normativo all’organizzazione e alle regole che ne legittimano i comportamenti e le scelte4. L’insieme delle regole di organizzazione e collaborazione tra gli agenti del Syal e del quadro di riferimento normativo delle Istituzioni che ne garantiscono la legittimità costituiscono le basi della governance, informale e/o formale, del Syal verso l’obiettivo implicito che ne ha ispirato la costituzione, pure questa quasi sempre informale (Torre, 2000).

Il ruolo delle politiche UE e il distretto del pomodoro da industria del Nord-Italia

La produzione da pomodoro da industria e la presenza dell’attività di trasformazione nelle provincie di Parma e Piacenza hanno più di un secolo di storia. L’origine di questa filiera produttiva trova le sue radici nelle innovazioni sia agricole che industriali dei primi del novecento e nella formazione e divulgazione scientifica. Da quegli anni, in questo territorio e in altre province limitrofe della pianura padana, si è sviluppato, da un lato, un approccio scientifico alle pratiche agricole e, dall’altro, un’importantissima attività di formazione e divulgazione agli agricoltori promossa dalle Istituzioni locali. La nascita, nel 1922 a Parma, della Stazione Sperimentale delle Conserve Alimentari (Ssica) testimonia questa sensibilità collettiva verso lo sviluppo del settore agroalimentare.
La storia e il depositarsi di elementi comuni hanno contribuito a caratterizzare fin dall’inizio l’industria di trasformazione del pomodoro a Parma e Piacenza sottolineandone gli aspetti identitari e creando, implicitamente, le premesse alla nascita di economie esterne tra le imprese (trasmissione di innovazioni, collaborazioni commerciali, comune crescita culturale, ecc.) che ne hanno rafforzato la capacità competitiva, ad esempio rispetto all’analoga e più arretrata attività industriale collocata nel Sud del Paese. Si deve rilevare tuttavia che, fino verso la fine degli anni ’70, la prossimità territoriale delle diverse fasi della filiera non era riuscita e dar vita ad una organizzazione che le trasformasse in un sistema capace di orientare le singole individualità, sia agricole che industriali, verso un obiettivo comune.
Il ripetersi di crisi di mercato a causa di eccedenze di produzione spinse la Commissione Europea a intervenire istituendo (Reg. n. 1151/78) un regime di aiuti per quintale di pomodoro fresco avviato alla trasformazione, che si basava sui contratti stipulati tra produttori agricoli e trasformatori o tra le rispettive associazioni. I contratti fissavano i quantitativi impegnati, i tempi di consegna e il prezzo, che non doveva essere inferiore a quello minimo stabilito dalla Commissione per ciascuna campagna produttiva.
Dopo un periodo segnato da un certo equilibrio di mercato, le quantità di pomodoro da industria tornarono fuori controllo perché i produttori di pomodoro fresco volevano beneficiare degli aiuti su quantitativi sempre maggiori, per cui la Commissione decise di limitarli a quote prefissate per ciascun impianto di trasformazione. L’innovazione più significativa, da sottolineare anche ai fini di questo lavoro, consisteva nel limitare la concessione dell’aiuto alle imprese di trasformazione che, oltre a pagare il prezzo minimo per i prodotti in quota, avessero stipulato i contratti di acquisto di pomodoro fresco con le Organizzazioni di produttori (OP), che diventarono le dirette beneficiarie degli aiuti e il tramite per il pagamento di questi ai produttori soci.
L’intervento della Commissione Europea, che seguì una azione del Ministero dell’Agricoltura Italiano diretta a favorire l’aggregazione della produzione, spinse i produttori di pomodoro da industria delle due province, e anche di province vicine, ad unirsi in OP e, nello stesso tempo, l’industria di trasformazione di Parma e Piacenza a ridurre il numero e ad aumentare la dimensione degli impianti, tra i quali i più importanti erano e sono tutt’ora alcuni di proprietà di cooperative di produttori che hanno ottenuto il riconoscimento di OP.
Queste scelte di politica agraria, e il conseguente quadro normativo, hanno creato le condizioni per lo sviluppo e la crescita di un sistema di OP che, in particolare nel Nord Italia, si è sviluppato in modo relativamente efficiente, basandosi su strutture mediamente di grandi dimensioni e specializzate nella produzione e trasformazione del pomodoro, gettando le basi di un tessuto organizzativo destinato a favorire la nascita di migliori e più efficaci relazioni tra le diverse fasi della filiera. L’aggregazione dell’offerta in OP e la razionalizzazione della struttura dell’industria di trasformazione in tutto il Nord Italia, con al centro il bacino produttivo di Parma e Piacenza, permisero sia alla parte agricola che a quella industriale di comprendere che l’equilibrio di mercato rappresentava una condizione di comune interesse, per cui già nei primi anni 2000 le organizzazioni di rappresentanza della produzione e dell’industria arrivarono a stipulare contratti di tipo interprofessionale validi per il pomodoro da industria del Nord Italia, che fissavano le quantità che le industrie si impegnavano a ritirare, il prezzo e le caratteristiche qualitative a cui era collegato.
La riforma dell’Ocm ortofrutta del 2007 (Reg. n. 1182/2007) provocò una profonda revisione del sistema di interventi a favore del pomodoro da industria, come per gli altri ortofrutticoli trasformati, sostituendo il sistema di aiuti correlati ai volumi produttivi, pur con il limite delle quote, con quello dei pagamenti disaccoppiati (decoupling), introdotto dalla riforma Fischler del 2003 in tutti gli altri settori produttivi. Tuttavia, per evitare cambiamenti improvvisi che avrebbero potuto destabilizzare la filiera, tenuto conto della forte incidenza dell’aiuto al pomodoro (circa il 50% dei ricavi), il regolamento consentiva agli Stati membri di avvicinarsi al disaccoppiamento totale in modo graduale, mantenendo per altri tre anni l’aiuto accoppiato, ma ridotto del 50%, fino alla campagna produttiva 2010/2011. Questa opzione fu quella scelta dallo Stato italiano.
E’ evidente che il passaggio al disaccoppiamento avrebbe potuto togliere le ragioni che spingevano i produttori di pomodoro da industria e le industrie di trasformazione a trovare degli accordi su base interprofessionale motivati, in primis, dalla necessità di creare le condizioni per garantire l’erogazione degli aiuti. In realtà, la previsione della scomparsa dell’aiuto accoppiato che permetteva all’industria di contare su un abbattimento dei costi di produzione del pomodoro fresco e, quindi, su una maggiore disponibilità da parte dei produttori ad accettare prezzi relativamente più bassi, spinse le industrie e le OP del Nord Italia e, in particolare, di Parma e Piacenza, a rafforzare la struttura organizzativa già esistente (Arfini et al., 2007).
Dopo una prima serie di incontri, nel 2007 venne creata a Parma una semplice associazione denominata “Distretto del pomodoro da industria – Nord Italia”5 con l’adesione di OP di Parma, Piacenza e Cremona, una provincia limitrofa, e di industrie di trasformazione dello stesso territorio.
Tra il 2007 ed il 2011, l’esperienza dell’associazione, basata soprattutto sulla raccolta di dati relativi alla produzione e alla trasformazione e alla loro diffusione tra i soci, a cui si aggiungono le numerose e varie interazioni tecniche ed economiche tra i partecipanti dell’associazione e anche con gli operatori di altre aree del Nord Italia, hanno ampliato l’associazione, partita nelle tre province (Parma, Piacenza, Cremona) fino a comprendere tutto il Nord Italia, ovvero OP e industrie di trasformazione insediate in Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte.
Anche per questo motivo, l’associazione si è evoluta trasformandosi nel 2011 in Organizzazione interprofessionale (OI) interregionale, formalmente riconosciuta dalla Regione Emilia-Romagna e successivamente approvata anche dalla Commissione UE (Canali, 2012).
Nel 2013, sono soci della OI “Distretto del pomodoro da industria – Nord Italia”: 18 OP, di cui 10 rappresentano gran parte della produzione di pomodoro fresco dell’area (95%) e 6 sono dotate di propri impianti che trasformano più del 40% di tutto il pomodoro del “Distretto”; 21 industrie di trasformazione con fatturati che superano, in molti casi, i 100 milioni di euro e che non scendono sotto i 20 milioni; le organizzazioni professionali di rappresentanza degli agricoltori e dell’industria e, con funzioni solo consultive, gli Enti locali e le Camere di Commercio delle province aderenti e alcuni Enti di Ricerca e sperimentazione. In ogni caso, i voti in Assemblea e nel Comitato di coordinamento, l’organo esecutivo, sono assegnati per il 85% alle OP e all’industria di trasformazione in modo paritetico, mentre le organizzazioni professionali hanno il restante 15% dei voti. Inoltre, vige il criterio che le decisioni vengono prese tendenzialmente all’unanimità o almeno a maggioranza qualificata di 3/4 degli aventi diritto (www.distrettopomodoro.it).
Nel 2013 sono stati consegnati all’industria di trasformazione del “Distretto” oltre 2 milioni di tonnellate di pomodoro fresco, pari al 98% di tutto il pomodoro prodotto nel Nord Italia (più del 50% della produzione nazionale) e le stesse industrie si sono rifornite praticamente solo dalle OP socie (98% di tutto il pomodoro fresco ritirato).
Con questo livello di rappresentanza nel Nord Italia sia delle OP che dell’industria di trasformazione, diventa fondamentale il ruolo che il “Distretto” svolge nella stipula del contratto interprofessionale che, finora, è stato sottoscritto al di fuori della OI6, ma praticamente tra gli stessi attori, che fissa il prezzo di riferimento della campagna in corso per la produzione di pomodoro da industria del Nord-Italia, i parametri di qualità del prodotto e i relativi coefficienti per il calcolo del prezzo finale, gli impegni di pianificazione della produzione del pomodoro fresco e di approvvigionamento delle industrie firmatarie del contratto attraverso le loro organizzazioni professionali.
Sulla base di quanto deciso nel contratto interprofessionale, il “Distretto” predispone il contratto tipo di fornitura che dovrà essere utilizzato da ciascuna OP per concludere la cessione del prodotto con le rispettive industrie di trasformazione, sostituito dall’impegno di conferimento se la consegna avviene a un impianto cooperativo di autotrasformazione, dove il prezzo è da definire. Nel contratto tipo è anche inserita una serie di regole condivise e approvate dal “Distretto”, che impegna i firmatari a riportare sulle confezioni di prodotto finito la scritta “made in Italy” e a tracciare il prodotto fresco a partire dal lotto in entrata; a comunicare alla OP, e quindi alla OI, le quantità entrate giornalmente in ciascun stabilimento e gli avvenuti pagamenti. Il mancato rispetto di quest’ultima regola autorizza il “Distretto” a sospendere la fornitura all’industria responsabile e a escluderla dalle trattative di acquisto per la campagna successiva, finché non avrà assolto al suo debito, salvo l’applicazione delle sanzioni previste dal contratto interprofessionale e sottoscritte nel contratto tipo.
La stabilità degli approvvigionamenti per quantità e qualità e l’insieme delle regole di comportamento condivise dai soci della OI hanno influito significativamente sulle scelte produttive orientate per più del 50% verso prodotti a maggiore valore aggiunto (polpe, succhi e passate, cubetti, salse preparate) e ha elevato la reputazione della produzione ottenuta in quest’area, apprezzata anche per la qualità del servizio al cliente, presso i buyer delle principali catene della grande distribuzione nazionale ed estera e delle industrie, spesso multinazionali, che effettuano seconde lavorazioni a partire dal concentrato.

Alcune considerazioni conclusive

A differenza di tanti casi di Syal presenti in letteratura, il “Distretto del pomodoro da industria- Nord Italia” si è formato in un’area vasta tra le più sviluppate d’Europa, praticamente comprende tutte le regioni della pianura padana, e interessa la filiera di un prodotto che non ha alcuna caratteristica di tipicità legata all’origine, ma presenta piuttosto le caratteristiche di una commodity. Anzi, nel mercato mondiale quando si parla di derivati del pomodoro italiani (concentrati, polpe, salse, ecc.) l’origine è riferita quasi sempre alle regioni del Sud Italia.
La formazione del nucleo iniziale del “Distretto” nelle province di Parma e Piacenza è dovuta in misura determinante alla storia della crescita culturale e sociale di quest’area, caratterizzata da una economia fondata su vari esempi di industria alimentare. Nella sua forma attuale, il sistema agroalimentare localizzato del “Distretto del pomodoro da industria - Nord-Italia” è il frutto, più che della prossimità geografica dei diversi agenti della filiera, di quella organizzativa che si è sviluppata per dare risposta agli interventi di politica agraria decisi dalla UE nel settore (Rallet, Torre, 2004; Torre, 2000). Da sottolineare, che in Emilia-Romagna, la regione dove sono concentrate gran parte delle imprese del “Distretto”, la cultura cooperativistica del mondo agricolo aveva favorito già nel passato la formazione di società cooperative in vari settori (latte, allevamento dei maiali, pomodoro). L’intervento della UE a sostegno della produzione del pomodoro da industria ha trovato una struttura della filiera già dotata di una certa organizzazione, in particolare circa il 40% della produzione veniva trasformato in impianti di proprietà di società cooperative agricole, per cui anche l’industria non cooperativa è stata spinta a razionalizzare le proprie strutture, riducendole di numero e aumentandone la dimensione, e ad organizzarsi per rispondere alla concentrazione dell’offerta di parte agricola.
La presenza di una cultura comune orientata all’agroindustria e alla gestione dell’attività d’impresa in agricoltura in forma cooperativa, insieme a una struttura istituzionale efficiente nelle regioni interessate, è la base della nascita del Syal del pomodoro da industria nel Nord Italia. Il caso del “Distretto del pomodoro da industria - Nord Italia” presenta un esempio di Syal molto diverso rispetto da quelli nati attorno a dei prodotti tipici o espressione di economie rurali di aree delimitate di paesi in via di sviluppo, precedentemente ricordati. I caratteri principali di questo Syal sono l’organizzazione orizzontale delle relazioni tra le imprese generata dall’intervento delle Istituzioni, in questo caso della politica della UE nel settore7, e non la prossimità territoriale dei partecipanti. Il risultato è la nascita di un sistema agroalimentare localizzato (Syal) basato sull’organizzazione delle relazioni tra le imprese partecipanti, da cui nasce una governance condivisa di gran parte delle scelte aziendali per affrontare in forma cooperativa le sfide del mercato globale.

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  • 1. Questo articolo è un’ampia sintesi di quello pubblicato con lo stesso titolo sul n. 1/2015 di Bae.
  • 2. Nella letteratura italiana vi è una vasta bibliografia sui distretti agrari e agroalimentari, tra questi si possono citare: Iacoponi (1990); Favia (1992); Cecchi (1992); Becattini (2000); Sassi (2009).
  • 3. Lo sviluppo delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha ampliato enormemente tali spazi e modifica nello spazio anche le forme organizzative delle imprese (Cappellin, 2000).
  • 4. Un esempio dell’intervento delle istituzioni pubbliche in questa direzione sono i disciplinari e il riconoscimento delle produzioni a indicazione o a denominazione d’origine.
  • 5. Il termine “Distretto” qui non è usato in modo del tutto corretto se si fa riferimento alle caratteristiche dategli da Becattini (1989), ma quasi come auspicio per una organizzazione che andava manifestandosi nel settore e che poteva contribuire allo sviluppo economico del territorio interessato.
  • 6. Finora la fissazione del prezzo del pomodoro fresco per la campagna in corso nel Nord Italia è avvenuto al di fuori della OI, praticamente tra le stesse OP e le stesse industrie di trasformazione rappresentate dalle proprie organizzazioni professionali, perché la normativa della Ocm ortofrutta vigente (Reg. n. 1182/2007) proibisce che tra i compiti delle OI ci sia anche la fissazione del prezzo per non contravvenire alle norme sulla concorrenza, soprattutto quando la dimensione raggiunta sia dominante nel territorio interessato.
  • 7. Si veda su questo punto l’articolo di Porter (2000), che sviluppa i temi della organizzazione e dell’intervento dello Stato nella competizione globale dei cluster.
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