Il made in Italy dei prodotti alimentari e gli incerti tentativi del legislatore italiano

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Il made in Italy dei prodotti alimentari e gli incerti tentativi del legislatore italiano
a Università della Tuscia, Dipartimento Istituzioni Europee

La legge n. 4 del 2011

Sulla Gazzetta Ufficiale del 19 febbraio 2011 è stata pubblicata la legge n. 4 del 3 febbraio 2011, intitolata “Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari”.
La legge, approvata con larga maggioranza, raccoglie al proprio interno disposizioni non omogenee, accomunate nelle dichiarate intenzioni del legislatore dal riferimento alla “qualità dei prodotti alimentari”, termine omnibus al cui interno è ormai abituale collocare gli oggetti più differenti (Adornato, Albisinni, Germanò 2010).
Si spazia dall’estensione dei contratti di filiera e di distretto all’intero territorio nazionale, all’istituzione di un sistema di etichettatura e controllo dei prodotti da agricoltura integrata (Canfora 2011), all’introduzione di misure sanzionatorie per il commercio di mangimi, la produzione di sementi, i prodotti DOP e IGP, all’adozione di strumenti per la rilevazione della produzione giornaliera di latte di bufala.
Ma le disposizioni certamente più rilevanti (e più controverse) introdotte da questa legge sono quelle di cui agli artt. 4 e 5, relative all’etichettatura ed alla presentazione dei prodotti alimentari; disposizioni con le quali il legislatore italiano tenta il difficile esercizio di individuare una possibile linea di coesistenza fra la normativa europea (sin qui orientata a negare generalizzato rilievo all’origine o provenienza dei prodotti alimentari) ed una diffusa domanda di valorizzazione giuridica dell’origine territoriale dei prodotti come strumento di competizione nel mercato.
La lettura di tali disposizioni considerate per sé sole sarebbe però fuorviante e insufficiente; e per tentare di individuare il senso ed i possibili effetti di questa iniziativa legislativa, occorre collocarla all’interno delle linee evolutive dell’ordinamento europeo e della serie di tentativi che hanno visto più volte negli ultimi anni il legislatore italiano impegnato nei temi della tutela e valorizzazione del made in Italy (peraltro con esiti tuttora largamente incerti ed in parte contraddittori).

Il mistero dell’origine e la coesistenza di una molteplicità di formule nel linguaggio del legislatore europeo

Va detto che origine e qualità dei prodotti alimentari sono termini rimasti a lungo non del tutto definiti, e privi di univoco significato sotto il profilo giuridico.
In particolare, per quanto riguarda l’origine dei prodotti alimentari, dottrina e giurisprudenza non sono sin qui pervenute a risultati condivisi, neppure in paesi che vantano una risalente tradizione in tema di prodotti del territorio. In Italia, sono note le risalenti dispute sull'interpretazione dell'art. 517 cod. pen., che considera unitariamente come oggetto di protezione "origine, provenienza e qualità dell'opera o del prodotto", senza specificare i contenuti da attribuire all’uno ed all’altro termine. E l’art. 516 cod. pen., nel punire la vendita e la messa in commercio di sostanze alimentari “non genuine”, non precisa cosa deve intendersi per genuinità di un alimento e se questa comprenda l’origine dell’alimento stesso. Significativa anche la disposizione dell’art. 515 cod. pen., che sanziona penalmente una fattispecie i cui presupposti, in riferimento all’origine o provenienza dichiarata o pattuita, non sono precisati sul piano dei contenuti.
Da alcuni anni l’art. 517-bis cod. pen., nel testo introdotto nel 1999 dal decreto legislativo n. 507, ha previsto una circostanza aggravante se i fatti di cui agli articoli 515, 516 e 517 del codice penale hanno ad oggetto “alimenti o bevande la cui denominazione di origine o geografia o le cui specificità sono protette da norme vigenti”; analogamente la speciale disciplina a tutela dei prodotti DOP e IGP introdotta nel 2004 dal decreto legislativo n. 297 (più volte integrato e modificato negli anni successivi) ha disposto particolari sanzioni in caso di mancato rispetto delle prescrizioni di origine fissate dai disciplinari di tali prodotti. Più in generale, da ultimo, gli artt. 517, 517-ter, 517-quater, 517-quinquies cod. pen., nel testo modificato ed integrato dalla legge n. 99 del 23 luglio 2009, hanno previsto sanzioni nell’ambito della disciplina a tutela della proprietà industriale in caso di violazioni o contraffazioni di indicazioni geografiche e denominazioni di origine, concorrendo a moltiplicare le discipline, e dunque i contenuti, assegnati all’origine degli alimenti, in ragione di specifiche regole di prodotto, non trasferibili alla generalità dei prodotti alimentari.
Anche in Francia, ove da tempo l’ordinamento ha prestato grande attenzione ai temi legati alla tipicità, territorialità e identità dei prodotti alimentari, il termine origine è tuttora privo di contenuti giuridici uniformi, al punto che l’incertezza in argomento, denunciata già oltre sessanta anni fa dal fondatore dell' Institut national de l’origine et de la qualité (INAO), ha indotto alcuni studiosi francesi a parlare di "mistero dell'origine" (Branlard 1995), con ciò sottolineando come la parola sia polisenso, e l'origine di un alimento non sia necessariamente riducibile alla provenienza geografica.
Appare, insomma, più un auspicio che una constatazione la posizione di chi ha proposto l'adozione di una definita distinzione semantica, che attribuisca ad "origine" l'indicazione di un legame di causalità fra l'origine e le caratteristiche del prodotto, ed a "provenienza" la semplice indicazione del luogo geografico da cui proviene un prodotto, senza alcuna implicazione di particolari caratteristiche del prodotto legate a tale provenienza.
La stessa normativa comunitaria, pur essendo più volte intervenuta su questo tema cruciale per la regolamentazione degli scambi, è stata per lungo tempo connotata dalla coesistenza di una pluralità di criteri, tra loro non omogenei.
E’ sufficiente qui ricordare, con una sintetica comparazione testuale fra disposizioni comunitarie di varia origine, che:

  • la direttiva sull’etichettatura e presentazione dei prodotti alimentari n.79/112 del 1978 utilizza genericamente la formula “origine o provenienza” senza specificarne il contenuto, pur insistendo sull’esigenza di non indurre in errore il consumatore circa l’origine o la provenienza “effettiva” del prodotto alimentare, così imponendo un singolare canone di “effettività”, che deve essere rispettato a pena di rilevanti sanzioni, ma il cui contenuto non è precisato dalla norma;
  • la direttiva sulla pubblicità ingannevole e comparativa n. 84/450 del 1984 fa riferimento alla “origine geografica o commerciale”, confermando la possibile natura polisenso del termine, riferibile sia ad un territorio che ad un’impresa;
  • la direttiva sul ravvicinamento delle legislazioni in tema di marchi n. 89/104 del 1988 non fa menzione dell’origine, ma utilizza l’espressione “provenienza geografica del prodotto o del servizio”, attribuendo alla provenienza un significato territoriale e non d’impresa.

Tali formule sono state integralmente confermate dai provvedimenti codificati che hanno da ultimo riordinato le richiamate discipline, sostituendo le precedenti direttive, e così:

  • dalla direttiva n. 2000/13 sull’etichettatura e presentazione dei prodotti alimentari;
  • dalla direttiva n. 2006/114 sulla pubblicità ingannevole e comparativa;
  • dalla direttiva n. 2008/95 sui marchi.

La scelta di mantenere immutate le precedenti formulazioni in punto appare particolarmente significativa, ove si consideri che nel corso degli anni sono intervenute molte disposizioni innovative in materia di etichettatura dei prodotti alimentari, ad esempio quanto alle denominazioni di vendita, lasciando tuttavia immutate le disposizioni che investono il cruciale e controverso tema dell’origine.
La perdurante assenza di una generale disciplina non appare casuale, né può essere in ipotesi liquidata come frutto di cattiva tecnica legislativa.
Secondo posizioni più volte espresse dalla Commissione Europea, la scelta sottesa ai richiamati provvedimenti rinvia alla preferenza verso criteri corrispondenti alla c.d. «qualità obiettiva» o «sostanziale», vale a dire nel senso dell’assegnazione ai prodotti alimentari del carattere di commodities tra loro fungibili e indifferenziate. Per contro, ogni elemento che nella comunicazione sul mercato, e quindi nell’etichettatura rinvii, in ipotesi, a caratteristiche non materiali (ivi incluse specifiche identità territoriali disgiunte da connotati intrinseci del prodotto), traducendosi in un veicolo di differenziazione, sarebbe - secondo questo modello - da giudicare illecito per contrasto con le norme che garantiscono la libera circolazione delle merci, siccome idoneo ad orientare le scelte del consumatore in ragione di elementi ritenuti solo apparenti, non misurabili in termini materiali e dunque non rispondenti ad effettive differenze nei prodotti e ad effettivi bisogni del consumatore, quali astrattamente valutati dal legislatore comunitario.

Il codice doganale comunitario

Nel complessivo quadro normativo così definito, un rilievo particolare e crescente ha assunto la disciplina in materia di origine non preferenziale delle merci, prima contenuta nel regolamento CEE n. 2913/92, denominato "Codice doganale comunitario" (CDC), e oggi dettata dal regolamento CE n. 450/2008, denominato “Codice doganale comunitario aggiornato” (CDCA), entrato in vigore il 24 giugno 2008.
Il CDC limitava esplicitamente l’ambito applicativo delle proprie definizioni in tema di origine alle sole disposizioni, tariffarie e non tariffarie, applicabili agli scambi di merci tra territorio comunitario e paesi extra-comunitari. Sicché l’estensione di tali definizioni ad altre aree disciplinari (quale - per quanto qui interessa - quella dell’etichettatura d’origine dei prodotti alimentari) poteva avvenire soltanto in via di interpretazione estensiva, oppure a seguito di distinto e specifico rinvio contenuto in normative speciali relative ad alcuni prodotti.
Il CDCA, invece, ha esplicitamente attribuito alle definizioni in tema di origine una portata generale, che investe, oltre alle misure tariffarie e non tariffarie relative allo scambio delle merci, le “altre misure comunitarie relative all’origine delle merci” (v. art. 35 lett. c) CDCA), e dunque anche le norme sull’etichettatura.
All’ampliamento dell’area applicativa dei criteri di origine, il CDCA ha accompagnato anche rilevanti modifiche alla stessa articolazione di tali criteri rispetto al CDC.
Il CDC esplicitava il criterio di origine per tutta una serie di prodotti, ivi inclusi espressamente i prodotti vegetali e quelli ottenuti esclusivamente da tali merci in qualsiasi stadio essi si trovino, chiarendo che per tali prodotti l’elemento decisivo ai fini dell’origine è quello del luogo di raccolta. Alla stregua delle norme doganali comunitarie in vigore dal 1992, l’indicazione del paese di origine dei prodotti agricoli freschi e trasformati era dunque di chiara e diretta applicazione, facendo riferimento al paese ove i prodotti erano stati raccolti.
Il CDCA, invece, si limita nell’art. 36 a fissare un criterio generale (“le merci interamente ottenute in un paese”), ma non ne precisa i contenuti rispetto alle diverse categorie di prodotti né in relazione all’ulteriore criterio relativo ai prodotti trasformati, delegando all’art. 38 la Commissione per l’adozione delle misure applicative.
Considerata la formulazione della norma generale e l’assenza di qualunque specificazione per categorie di prodotti, con tale delega alla Commissione in realtà non è stato assegnato il compito di adottare semplici misure applicative lungo un percorso esattamente disegnato, ma piuttosto quello di fissare con larga autonomia gli effettivi contenuti prescrittivi di una norma generale, suscettibile di declinazioni assai differenziate in ragione della disomogeneità delle merci e della molteplicità dei metodi di commercializzazione.
E’ sufficiente in proposito considerare il caso di frutta che venga privata della buccia e dei semi e venduta in confezioni pronte per il consumo, o di insalata che venga lavata, tagliata e confezionata in buste con atmosfera condizionata mediante gas inerti (la c.d. “quarta gamma”), anch’esse pronta per il consumo. Sulla base dell’art. 23, par. 2, lett. b), del CDC era pacifico che questa frutta e verdura, pur essendo assoggettata a successive operazioni per la commercializzazione, manteneva l’origine propria del paese ove era stata raccolta.
Sulla base invece del criterio fissato dall’art. 36 del CDCA, in assenza di esplicito riferimento al paese di raccolta dei prodotti vegetali, sembra possibile sostenere che la lavorazione di frutta e verdura per la “quarta gamma” costituisce una trasformazione sostanziale, tale da attribuire un canone di origine collegato al paese di confezionamento anziché a quello di raccolta. (Cfr. la sentenza Cass., III pen., 12 luglio 2007 n. 27250, che, chiamata a decidere in un giudizio per frode in commercio ex art. 517 c.p., ha concluso che nel caso di confezioni di macedonia di frutta, e più in generale di “prodotti vegetali che non siano commercializzati così come sono stati raccolti”, il paese di origine va individuato in riferimento al luogo di lavorazione e non a quello di raccolta della frutta).
Si aggiunga, quanto al canone di origine dei prodotti trasformati, che:

  • mentre secondo l’art.24 del CDA: “Una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”;
  • ai sensi dell’art. 36 del CDCA: “Le merci alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l'ultima trasformazione sostanziale.”

Sicché, a far tempo dall’entrata in vigore del CDCA, per far acquisire l’origine ad un prodotto trasformato, è sufficiente che nell’ultimo paese coinvolto avvenga una lavorazione sostanziale, senza necessità che a questa si accompagnino tutti gli altri criteri e specificazioni previsti dall’art. 24 del CDA.
Il canone di origine si semplifica e si banalizza. L’origine della materia prima e le fasi intermedie di lavorazione perdono rilievo, mentre viene privilegiato il momento finale della trasformazione, non necessariamente coincidente con la fase caratterizzante dell’intero processo, essendo richiesto esclusivamente che si sia trattato di una “fase importante del processo di fabbricazione”.

Elementi per l’emergere di regole di etichettatura da area vasta

A fronte delle difficoltà che il tema dell’etichettatura di origine dei prodotti alimentari di massa continua ad incontrare nella disciplina orizzontale europea, rilevanti novità sono emerse negli ultimi anni in riferimento ad alcuni specifici prodotti.
Il passaggio decisivo, che esprime in modo esemplare l’incontro tra le ragioni del mercato e della competizione e quelle della sicurezza alimentare, è segnato dal regolamento n. 820/97 sull’etichettatura e tracciabilità della carne bovina, adottato in risposta alla ben nota epidemia di BSE.
Con tale regolamento sono state introdotte norme che prevedono l’indicazione generalizzata dell’origine geografica da area vasta della carne bovina.
In questo caso si intrecciano e hanno precipuo rilievo due profili, collegati ma distinti: quello dei contenuti della disciplina, e quello della base giuridica adottata, con quanto ciò comporta in termini di nuovo impianto sistemico di regolazione.
Quanto ai contenuti, la disciplina introdotta dal regolamento del 1997, sulla spinta delle preoccupazioni per il diffondersi di una patologia le cui origini erano riferibili ad una precisa area territoriale e ad un identificato paese membro, per la prima volta ha previsto un’etichettatura generalizzata da area vasta per un’intera categoria di prodotti (la carne bovina), senza limitarsi a discipline di nicchia, quale quella prevista dal regolamento n.2081/92 per le sole DOP/IGP, e così ha generalizzato come criterio obbligatorio per l’etichettatura della carne bovina quello del “made in …”.
A ciò si affianca, quale ulteriore elemento rilevante, la scelta della base giuridica posta a fondamento del regolamento, con novità all’epoca neppure pienamente avvertita in ragione della prevalente attenzione alle crescenti preoccupazione dell’opinione pubblica sui pericoli conseguenti all’epidemia di BSE.
La base giuridica adottata per il regolamento n. 820/97 è quella dell’art. 43 del Trattato, dunque una norma relativa all’organizzazione del mercato, e non l’art. 100/A sul ravvicinamento delle legislazioni per la sicurezza alimentare, sino ad allora utilizzato in tutti i casi in cui erano state introdotte disposizioni relative alla sicurezza elementare.
La Commissione ed il Parlamento hanno impugnato il regolamento innanzi alla Corte di giustizia, non contestando il merito delle misure adottate e l’opportunità delle stesse, ma censurando il ricorso come base giuridica all’art. 37 (ora 43) del Trattato, anziché all’art. 100/A (ora 95). Secondo la Commissione ed il Parlamento, obiettivo reale del regolamento non era quello di disciplinare il mercato della produzione e di valorizzare i prodotti agricoli (che non avrebbe giustificato la differenziazione dei prodotti in ragione della origine territoriale, siccome prescindente dalle loro caratteristiche obiettive), ma piuttosto quello di introdurre misure igienico-sanitarie a tutela della salute, le uniche che avrebbero potuto giustificare regole idonee a determinare una frammentazione del mercato in ragione delle origini nazionali del prodotto. Sicché, secondo le istituzioni ricorrenti, la base giuridica avrebbe dovuto essere individuata non nell’art.37 (ex 43) del Trattato, ma piuttosto nell’art. 100/A, con conseguente necessità di ricorso alla procedura di codecisione prevista dall’art. 251 (ex art.189/B).
La causa è stata decisa dalla Corte con sentenza depositata il 4 aprile 2000 (causa C-269/97), con cui ha respinto la distinzione fra produzione e commercializzazione, e fra regole rivolte ai produttori e regole rivolte ai consumatori, e ha dichiarato infondato il ricorso con questa esemplare motivazione:
«… l’art. 43 del Trattato costituisce la base giuridica appropriata di qualsiasi normativa attinente alla produzione ed alla messa in commercio dei prodotti agricoli elencati nell’allegato II del Trattato che contribuisca alla realizzazione di uno o più degli obiettivi della politica agricola comune sanciti dall’art. 39 del Trattato. … Per quanto riguarda lo scopo del regolamento impugnato, occorre rilevare che, secondo il primo considerando, esso mira a ripristinare la stabilità del mercato delle carni bovine e dei prodotti a base di carne, destabilizzato dalla crisi della BSE, migliorando la trasparenza delle condizioni di produzione e di commercializzazione dei prodotti di cui trattasi, in particolare per quanto attiene alla rintracciabilità. … Si deve quindi constatare che, disciplinando le condizioni di produzione e di commercializzazione delle carni bovine e dei prodotti a base di carne bovina per migliorare la trasparenza di tali condizioni, il regolamento impugnato ha lo scopo essenziale di perseguire gli obiettivi di cui all’art.39 del Trattato, in particolare la stabilizzazione del mercato. Giustamente, quindi, esso è stato adottato in base all’art.43 del Trattato».
La pronuncia della Corte, insomma, ha assegnato al regolamento n.820/97, forse più che a qualunque altro precedente provvedimento normativo, la natura di atto esemplare del sistema europeo di diritto agroalimentare, come sistema complesso, che unifica in una disciplina plurifunzionale ragioni della concorrenza e ragioni della sicurezza alimentare, supera la distinzione fra materie, accomuna in un unico ambito di regolazione tutti i soggetti della filiera produttiva (ivi inclusi coloro che operano nella fase della produzione primaria) ed i consumatori.
All’interno di questo sistema la dichiarazione dell’origine territoriale da area vasta, prescindente da qualunque elemento materiale di qualità analiticamente riscontrabile, ma collegata esclusivamente al paese di origine della materia prima, diventa elemento essenziale per la trasparenza della comunicazione ai consumatori ed insieme per la stabilizzazione del mercato e la corretta concorrenza fra le imprese.
Significativa in argomento anche la vicenda relativa alla disciplina della designazione di origine dell’olio di oliva vergine ed extra-vergine, con la quale si è riconosciuta la legittimità del ricorso ad una dichiarazione di origine da area vasta, cioè da un intero Stato membro della Comunità, in assenza di qualunque elemento materiale riferito alle caratteristiche organolettiche dell’olio.
Nell’arco di poco più di un decennio, dal regolamento n. 2815/1998 al regolamento n. 182/2009, si è resa obbligatoria la designazione di origine dell’olio vergine ed extravergine di oliva, inizialmente introdotta solo come facoltativa.
La modifica nella dimensione spaziale esprime una rilevante novità nella filosofia sottesa all’uso della nuova formula. Destinatari della designazione d’origine non sono i c.d. “prodotti di nicchia” o i “giacimenti gastronomici” (che già godono di specifici segni distintivi, calibrati in ragione di aree ben più piccole e specificamente delimitate), quanto piuttosto la grande massa del prodotto medio, destinato ad un consumo generalizzato, attraverso i grandi circuiti distributivi, i grossi volumi di vendita ed il massiccio intervento dell’industria alimentare, sia nelle fasi della lavorazione e confezione del prodotto, che in quelle della sua commercializzazione.
La progressiva adozione del criterio obbligatorio di etichettatura di origine da area vasta si afferma, negli stessi anni che hanno visto le richiamate novità disciplinari per la carne bovina e l’olio di oliva, anche per altre classi di prodotto, così segnando una crescente espansione del ricorso a tale canone di comunicazione sul mercato.
E’ sufficiente qui ricordare, a conferma di tale linea evolutiva, alcuni significativi regolamenti comunitari, e così il Reg. n. 2200/96 sull’ortofrutta, che richiede che «sulla merce messa in vendita» sia indicata, oltre che la varietà e la categoria, anche l’ «origine» del prodotto, ed il Reg. n. 104/2000 relativo a pesca e acquacoltura, che prevede che pesci, molluschi e crostacei «possono essere proposti per la vendita al dettaglio al consumatore finale, indipendentemente dal metodo di commercializzazione, soltanto se recano un'indicazione o un'etichetta adeguata che precisi: a) la denominazione commerciale della specie, b) il metodo di produzione (cattura in mare o nelle acque interne o allevamento), c) la zona di cattura».

Alcune incerte iniziative nazionali

Il tema dell’origine dei prodotti alimentari si è dunque imposto all’attenzione del legislatore europeo, che in anni recenti è intervenuto con crescente frequenza e intensità sui regimi disciplinari esistenti, in riferimento sia a specifiche filiere produttive, sia al generale sistema delle regole di comunicazione con il consumatore; tant’è che la Commissione europea da ultimo ha avvertito l’esigenza di aprire un ampio confronto sullo stesso concetto di qualità nei prodotti agroalimentari1.
A questo quadro comunitario, complesso, articolato ed attraversato da linee evolutive significative, fa da contraltare l’incerto sovrapporsi di ripetute iniziative legislative nazionali, ancora lungi dal trovare una dimensione sistematica coerente.
Il sovrapporsi di regole, infatti, ha finito per produrre situazioni di ulteriore e più acuta incertezza, determinando un quadro di dissonanze, piuttosto che la ricomposizione della disciplina in ragione di principi e valori condivisi. Esemplare dell’inadeguatezza di risposte additive e non sistematiche, è l’insuccesso di una serie ripetuta di provvedimenti legislativi, che pure erano intesi ad introdurre una disciplina di generale applicazione in tema di comunicazione al consumatore dell’origine dei prodotti, non solo agricoli e alimentari.

La legge finanziaria 2004

Nel dicembre 2003, la legge finanziaria 2004 (24 dicembre 2003, n. 350) ha disposto: «L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale», precisando che «Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana», e che «Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio» (art.4, comma 49, della legge n. 350 del 2003).
La norma così introdotta ha operato secondo una logica additiva, con il dichiarato fine di espandere le fattispecie di rilevanza penale, ma ha omesso di affrontare il problema, decisivo, della definizione di cosa debba intendersi per provenienza e per origine di un prodotto.
Sicché, non sorprendentemente, la Corte di cassazione, con una sentenza del febbraio 2005 (n.3352 del 21 ottobre 2004-2 febbraio 2005), ha escluso la sussistenza dell’illecito nel caso di prodotti realizzati in Romania da una società controllata al 70% da una società italiana, che recavano in etichetta esclusivamente la denominazione e la sede della società italiana, senza alcuna indicazione sulla provenienza dalla fabbrica sita in Romania.
Dalla lettura della disciplina dei marchi, affermata in prospettiva penalistica dalla Suprema Corte in questa decisione, deriverebbe un’obbligata interpretazione delle nuove norme in tema di comunicazione commerciale dell’origine o provenienza dei prodotti. Con la conseguenza che sarebbe del tutto irrilevante la mancata indicazione del luogo di fabbricazione materiale, e legittimamente sarebbe stata indicata in etichetta soltanto la sede della società italiana, da qualificarsi produttore siccome responsabile verso l’acquirente per la qualità del prodotto.
Analoga conclusione, sempre in prospettiva penalistica, ha raggiunto la Corte di cassazione con una successiva pronuncia dell’aprile 2005, nella quale - con riferimento a capi di abbigliamento prodotti in Cina e venduti in Italia con un’etichetta recante il nome della società italiana che aveva fatto produrre i capi in Cina, accompagnata dalla dicitura “Italy” e dai colori della bandiera italiana - ha escluso la sussistenza del reato introdotto dall’art.4, comma 49, della legge finanziaria del 2003, con la seguente motivazione: «La fabbricazione di un prodotto industriale all’estero, per avere l’imprenditore scelto di “delocalizzare” il processo produttivo, e la sua reimportazione con l’indicazione del nome del produttore e con la dicitura “Italy”, non viola la norma, in quanto non è falsa o fallace l’identità del produttore, che resta immutata anche se la fabbricazione è avvenuta fuori dal territorio nazionale» (Cass., III sez. pen., sentenza n. 13712 del 17 febbraio-14 aprile 2005).
Significativamente, tuttavia, in questa decisione la Suprema Corte ha introdotto, sia pure soltanto in obiter, una distinzione fra i prodotti industriali, in ordine ai quali ha ribadito che «per origine del prodotto deve intendersi la sua origine imprenditoriale, cioè la sua fabbricazione da parte di un imprenditore che assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo produttivo» e «prodotti agricoli o alimentari che sono identificabili in relazione all’origine geografica, la cui qualità essenzialmente dipende dall’ambiente naturale e umano in cui sono coltivati, trasformati e prodotti», per tali intendendo quelli di cui al regolamento (CEE) n.2081/92, in riferimento ai quali «per origine del prodotto deve intendersi propriamente la sua origine geografica e territoriale» (sentenza ult. cit.).
Per un verso si conferma l’inadeguatezza degli esiti di un intervento legislativo additivo e non sistematico, quale quello operato con la legge finanziaria del 2004, ma per altro verso emergono possibili rilevanti differenziazioni nella disciplina della comunicazione sul mercato fra i prodotti industriali e taluni prodotti agricoli e alimentari, in ragione di una riconosciuta obiettiva diversità di taluni di questi ultimi.
Anche in questa più recente giurisprudenza di legittimità, peraltro, la logica della distinzione fra prodotti industriali e prodotti agricoli ed alimentari muove da una previsione di eccezione. Vale a dire - secondo la Corte - anche per i prodotti agricoli e alimentari l’origine geografica rileverebbe soltanto in quanto riconosciuta come elemento connotante del prodotto alla stregua di una specifica normativa, quale quella comunitaria sui prodotti DOP e IGP. Al contrario, per la generalità dei prodotti non beneficiari di riconoscimento ai sensi del reg. 2081/92, viene implicitamente negato rilievo all’origine territoriale.
L’incertezza della ricostruzione operata risulta evidente, lì ove la Corte di legittimità, nel riconoscere rilievo al dato geografico di origine per i prodotti DOP e IGP, collega tale rilievo a «qualità» dipendenti dall’ambiente naturale o umano in cui sono coltivati, trasformati o prodotti, ma con ciò, fra l’altro, omette di considerare che per le IGP è sufficiente che la sola «reputazione» sia collegata all’origine territoriale.

La legge n. 204 del 2004

Esiti analoghi di irrilevanza (esplicitamente confermati anche sul piano formale) sono derivati da un’altra iniziativa legislativa, specificamente intesa a disciplinare la dichiarazione di origine nell’etichetta dei prodotti alimentari ed a legare tale indicazione a quella dell’origine della materia prima agricola impiegata.
La legge n.204 del 3 agosto 2004, di conversione del decreto legge n. 157 del 24 giugno 2004, ha introdotto nel corso dell’iter parlamentare, una disposizione, in forza della quale:
«1. Al fine di consentire al consumatore finale di compiere scelte consapevoli sulle caratteristiche dei prodotti alimentari posti in vendita, l'etichettatura dei prodotti medesimi deve riportare obbligatoriamente, oltre alle indicazioni di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 109, l'indicazione del luogo di origine o provenienza.
2. Per luogo di origine o provenienza di un prodotto alimentare non trasformato si intende il Paese di origine ed eventualmente la zona di produzione e, per un prodotto alimentare trasformato, la zona di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata prevalentemente nella preparazione e nella produzione.
3. Con decreti del Ministro delle politiche agricole e forestali di concerto con il Ministro delle attività produttive sono individuate, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, le modalità per la indicazione del luogo di origine o di provenienza».
Questa disposizione, oltre a prevedere l’obbligatorietà della dichiarazione dell’origine degli alimenti su tutti i prodotti posti in vendita, ha precisato che per origine o provenienza dei prodotti alimentari non trasformati deve intendersi il paese o la zona di produzione, e per origine o provenienza dei prodotti trasformati, la zona di coltivazione o allevamento della materia prima prevalentemente utilizzata.
La generalizzata e obbligatoria adozione di un unico criterio, non coordinato con le altre disposizioni in tema di denominazioni e di marchi d’impresa, ha suscitato le vivaci critiche delle imprese di trasformazione alimentare che, con l’adozione di un unico canone di origine, identico per i prodotti trasformati e per quelli non trasformati, e basato esclusivamente sulla materia prima, vedevano gravemente svalutato il ruolo attribuito al saper fare ed alla fase della trasformazione.
Soprattutto l’introduzione di una siffatta disciplina esclusivamente in sede nazionale ha - come prevedibile - suscitato la reazione della Commissione europea, che ha contestato al governo italiano sia la mancata previa notifica ai sensi del regolamento sulle norme tecniche, sia la violazione dell’art.28 del Trattato, nella misura in cui una disciplina nazionale non coordinata in sede europea si tradurrebbe in un ostacolo alla libera circolazione delle merci.
La nuova normativa nei fatti non ha trovato alcuna applicazione, poiché il Ministro delle politiche agricole e forestali non ha emanato i decreti applicativi previsti, pur essendo ampiamente decorso il termine semestrale fissato dalla legge, e con una circolare del 1 dicembre 2004 ha sostanzialmente rinviato a tempo indeterminato l’adozione dei decreti, in attesa di nuovi e diversi provvedimenti legislativi, da assumere d’intesa con la Commissione europea.
Anche in questo caso, insomma, la logica di momento singolo e di addizione asistematica, che omette (volutamente, o per inconsapevolezza) di considerare il più ampio quadro di regolazione in cui ciascuna nuova disposizione necessariamente si iscrive, ha finito per rivelarsi inidonea a soddisfare anche il particolare obiettivo perseguito.

Il decreto legge sulla competitività del marzo 2005

Nel marzo 2005 il legislatore, in una sorta di replica ai giudici di legittimità, con il decreto legge sulla competitività (d.l. 14 marzo 2005, n. 35), ha modificato l'articolo 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, inserendo dopo le parole «fallaci indicazioni di provenienza», le parole «o di origine», così da azzerare il primo argomento utilizzato nella decisione n.3352 del 2005 sopra richiamata.
Anche dopo questa modifica legislativa, tuttavia, restava «da accertare se davvero la legge sanzioni ora penalmente, ai sensi dell’art. 517 c.p., anche l’erroneità quanto alla provenienza materiale, geografica del prodotto» (Casaburi 2005).

Il decreto legge in materia finanziaria del settembre 2005

Nel settembre 2005, evidentemente persuaso che i precedenti interventi legislativi del 2004 e del 2005 non avessero colto nel segno, consentendo alla giurisprudenza un’interpretazione restrittiva della nuova disciplina, il legislatore è nuovamente intervenuto sul testo dell’art. 4 comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, estendendo la tutela sanzionatoria alla «commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione» (art. 2 ter del D.L. 30 settembre 2005 n. 203 convertito in legge 2 dicembre 2005, n. 248).
Dopo tale ulteriore intervento la fattispecie risultava significativamente ampliata, configurando un’ipotesi di reato consistente non più esclusivamente nell'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza, ma ancor prima in qualunque atto idoneo, diretto in modo non equivoco alla commercializzazione, così da anticipare - nelle intenzioni del legislatore - la tutela penale.
Anche questa nuova formulazione peraltro, secondo l’interpretazione della Corte di legittimità, risultava nei fatti inidonea a conseguire il risultato perseguito.
La Corte di Cassazione, infatti, chiamata a decidere sul momento consumativo del reato di cui all’art. 517 cod. pen. in riferimento al made in Italy, ha chiarito che non è configurabile, e pertanto non è punibile, un’ipotesi di tentativo di commercializzazione, tutte le volte in cui la merce recante fallaci indicazioni di provenienza sia stata sequestrata in dogana, poiché il blocco preventivo della merce in dogana impedirebbe di per sé qualunque atto di messa in vendita (Cass., III sez. pen., sentenza n. 27063 del 4 luglio 2008).

La legge finanziaria del 2007

Un ulteriore episodio, del pluriennale confronto fra innovazioni legislative ed interpretazioni del giudice di legittimità in tema di made in Italy, è stato segnato nel dicembre 2006 dalla legge finanziaria 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296), che ha esteso la fattispecie di fallace indicazione della provenienza e dell'origine dei prodotti.
In particolare il comma 941 dell'articolo unico della legge finanziaria del dicembre 2006 ha modificato ancora una volta il secondo periodo dell'art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, inserendo l’inciso, secondo il quale nella fattispecie di fallace indicazione di origine o provenienza resta "incluso l'uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli".
Anche l’esplicito richiamo legislativo all’uso decettivo di marchi aziendali non sembra però aver persuaso la giurisprudenza di legittimità a modificare il proprio prevalente orientamento, che collega l’origine del prodotto ad un criterio aziendale e di impresa e non geografico.
La Corte regolatrice, con la sentenza n. 8684 del 1 marzo 2007, pronunciata in riferimento al sequestro in dogana di una partita di orologi fabbricati in Cina (ad Hong Kong) ma recanti incisa sul retro della cassa la dicitura “Officina del tempo - Italy”, ha invero confermato il risalente orientamento giurisprudenziale, secondo cui, pur dopo le numerose disposizioni legislative, intervenute in questi ultimi anni, per origine di un prodotto nella disciplina dell’etichettatura e dei marchi, deve intendersi esclusivamente il riferimento all’imprenditore responsabile della produzione e non al luogo geografico di produzione.
Occorre dunque prendere atto della sostanziale inefficacia di misure occasionali in tema di comunicazione nel mercato - quali quelle adottate sino al 2007 - in assenza di una coerente risistemazione della complessiva disciplina dei segni distintivi.

I plurimi interventi del 2009

Ulteriori tappe di questa vicenda legislativa si sono svolte nel corso del 2009, con una singolare sovrapposizione di leggi, decreti legge e leggi di conversione, che se hanno accresciuto la già rilevante mole di disposizioni in materia, non hanno con ciò esaurito i perduranti spazi di incertezza.
Un primo passaggio è stato compiuto all’interno della legge n. 99 del 23 luglio 2009 indirizzata al sostegno del sistema produttivo, che all’art. 15 ha inasprito le sanzioni penali e introdotto alcune specificazioni delle fattispecie di illecito in tema di proprietà industriale, con specifica attenzione alle indicazioni geografiche e alle denominazioni di origine dei prodotti alimentari, e all’art. 17 ha previsto un ulteriore intervento additivo nel corpo dell’art. 4, comma 49 della legge 350/2003 sul made in Italy.
In particolare l’art. 17 ha introdotto l’obbligo - a pena del sequestro della merce, oltre che delle sanzioni penali personali - di fornire “un’indicazione precisa, in caratteri evidenti” dell’origine della merce su prodotti non originari dell’Italia qualora per detti prodotti vengano utilizzati “marchi di aziende italiane”.
La disposizione, votata dal Parlamento in risposta alle sollecitazioni venute da alcune aree di alcuni settori produttivi, è stata accolta con forte perplessità da altri settori, soprattutto industriali, preoccupati dei possibili effetti quanto alla liceità dell’utilizzazione di marchi aziendali risalenti, che recano al proprio interno l’espresso riferimento all’italianità dell’azienda.
Dopo appena due mesi, il legislatore ha pertanto avvertito la necessità di intervenire nuovamente in argomento, e con il decreto legge n. 135 del 25 settembre 2009 ha abrogato l’art. 17 della citata legge n. 9/2009 (così ripristinando il testo precedente dell’art. 4, comma 49 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, sul made in Italy), ed ha contestualmente introdotto una nuova disciplina contenente la definizione di prodotto «realizzato interamente in Italia», o «100% made in Italy», o «100% Italia», o «tutto italiano», per tale intendendo «il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano». L’utilizzo di tali indicazioni, o di indicazioni analoghe, è punito con le pene previste dall’art. 517 cod.pen. aumentate di un terzo.

La legge del 2011

La vicenda evolutiva della disciplina del made in Italy, con specifico riferimento alle peculiarità dei prodotti alimentari, ha infine visto l’emanazione della legge 3 febbraio 2011 n. 4, il cui art. 4, "Al fine di assicurare ai consumatori una completa e corretta informazione sulle caratteristiche dei prodotti alimentari commercializzati, trasformati, parzialmente trasformati o non trasformati, nonché al fine di rafforzare la prevenzione e la repressione delle frodi alimentari", ha introdotto l'obbligo di riportare nell'etichettatura di tutti i prodotti alimentari l'indicazione del luogo di origine o di provenienza.
La norma precisa che "Per i prodotti alimentari non trasformati, l'indicazione del luogo di origine o di provenienza riguarda il Paese di produzione dei prodotti", e che "Per i prodotti alimentari trasformati, l'indicazione riguarda il luogo in cui è avvenuta l'ultima trasformazione sostanziale e il luogo di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o nella produzione dei prodotti".
Considerata la molteplicità di fattispecie che possono presentarsi, e tenuto altresì conto della prevedibile opposizione della Commissione europea (la quale ha comunicato al governo italiano l'apertura di una procedura di infrazione non appena la legge è stata approvata dal Parlamento e prima ancora della sua pubblicazione sulla G.U.), l'art. 4, comma 3 della legge citata prevede che le modalità per l'indicazione obbligatoria dell'origine o provenienza sull'etichetta delle varie categorie di prodotti alimentari siano determinate con decreti interministeriali del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali e del Ministro dello sviluppo economico, d'intesa con la Conferenza Stato-Regioni. Il comma 12 del medesimo art. 4 stabilisce che gli obblighi di etichettatura di origine introdotti da tale articolo avranno effetto decorsi sessanta giorni dalla data di entrata in vigore dei decreti di cui al comma 3.
Ai sensi del comma 3 del citato art.4, il relativo procedimento avrebbe dovuto essere attivato entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge; termine inutilmente decorso.
L'effettiva applicazione delle richiamate disposizioni legislative nazionali, sulla generale indicazione dell'origine o provenienza nelle etichette dei prodotti alimentari, è dunque rinviata ad una data che la legge non individua con certezza, a conferma della natura di “manifesto politico”, più che di effettivo precetto giuridico, che sembra doversi attribuire a questa legge.
Va tuttavia detto che esclusa - almeno nei tempi brevi previsti dal provvedimento legislativo in commento - un’effettiva cogente applicazione delle nuove norme nazionali in tema di etichettatura di origine generalizzata per i prodotti agro-alimentari, alla legge n. 4/2011 sembra doversi comunque riconoscere natura e carattere di peculiare atto di partecipazione al processo legislativo, come atto procedimentale piuttosto che come atto finale, quali tradizionalmente dovrebbero essere le leggi nell’attuale formale assetto delle fonti.
La legge n. 4/2011 invero nella sostanza ha la natura (indiretta e impropria, ma non per questo meno rilevante) di strumento di partecipazione del Parlamento italiano alla fase ascendente del procedimento legislativo europeo.
Come è noto, il Trattato di Lisbona ha attribuito più ampi poteri e competenze al Parlamento europeo, ma a questi ha affiancato il riconoscimento di un potere di sollecitazione di iniziative legislative in capo ai cittadini europei (almeno un milione, aventi la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, ex art. 11.4 TUE), riconoscendo altresì ai Parlamenti nazionali un ruolo attivo per il buon funzionamento dell’Unione (art. 12 TUE); ruolo solo in parte definito sul piano procedimentale, e che - nell’ambito di una lettura non formale del disegno istituzionale delle fonti europee - ben potrà vedere l’emergere di forme originali di partecipazione attiva dei Parlamenti nazionali nel processo legislativo europeo.
In altre parole, la legge n. 4/2011, piuttosto che essere letta nel suo significato testuale e valutata per la sua prevedibile inefficacia in ragione della procedura di infrazione già aperta dalla Commissione europea, può essere intesa come strumento di partecipazione politica al processo legislativo europeo, collocandosi non casualmente all’interno dell’esame che il Parlamento europeo e il Consiglio stanno in questi mesi conducendo sulla proposta di nuovo regolamento sulla informazione alimentare dei consumatori, presentata dalla Commissione europea sin dal gennaio 20082.
Il nuovo regolamento dovrebbe sostituire la direttiva n.2000/13, modificando in più punti la disciplina esistente, e fra l’altro adottando disposizioni innovative ed originali in tema di indicazione dell'origine dei prodotti alimentari, a conferma della persistente tensione verso una modifica del quadro normativo vigente.
L'adozione di questo regolamento, la cui emanazione è prevista nel corso dell'anno 2011, renderebbe di fatto superata la legge 3 febbraio 2011, n.4, nella parte relativa all'etichettatura di origine.
Le formule introdotte dalla recente legge italiana, in questo senso, si proporrebbero - al di là della loro veste formale di atto legislativo approvato dal Parlamento e promulgato dal Presidente della Repubblica - come contributo di proposta nel processo di regolazione europea, con la peculiare autorità e rilevanza che a siffatta (pur formalmente impropria) proposta deriva proprio dall’essere atto legislativo nazionale oggetto di procedura di infrazione europea, come tale destinato a beneficiare di peculiare attenzione anche da parte delle istituzioni comunitarie.
Occorrerà pertanto attendere la conclusione della procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea e, soprattutto, dell'iter legislativo sulla nuova proposta di regolamento innanzi al Parlamento europeo, per potere disporre di un quadro consolidato della disciplina in materia.
Quale che sia l’esito, è in ogni caso agevole prevedere, in un prossimo futuro, ulteriori interventi del legislatore europeo e nazionale. In coerenza con la nuova dislocazione dei poteri che, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha assegnato al Parlamento europeo competenze ben maggiori che in passato in materia di mercati agroalimentari.

Riferimenti bibliografici

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  • Casaburi G. (2005), Commento a Cass., III sez. pen., sentenza n.3352/2005, in Foro it., II, 203

  • Costato L. (2008), L’informazione dei consumatori: postrema frontiera della CE, in Rivista di diritto alimentare, n. 4, [link]

  • Rook Basile E. (2009), “Marchi dei prodotti alimentari”, in Diritto Alimentare. Mercato e sicurezza, cit.

  • 1. Si veda il Green paper della Commissione europea sulla “Qualità dei prodotti agroalimentari”, COM (2008) 641 def.; per un’ampia discussione a più voci e secondo differenziate prospettive, delle posizioni assunte dalla Commissione, v. il fascicolo n. 1 del 2009 della Rivista di diritto alimentare, [link].
  • 2. Proposta di nuovo regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, sulla “Informazione alimentare dei consumatori”, Brussels, 30 gennaio 2008, COM(2008) 40 final.
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