Crisi economica e agricoltura: 2009 e 1929 a confronto

Crisi economica e agricoltura: 2009 e 1929 a confronto
a Università di Perugia, Dipartimento di Scienze Agrarie Alimentari e Ambientali
b Centro per lo Sviluppo Agricolo e Rurale (CeSAR)

La gravità dell’attuale crisi economica riconduce spesso alla memoria degli operatori e degli economisti la storica crisi del 1929. Non è questa la sede per un confronto fra le due crisi economiche, confronto che – seppure affascinante – richiederebbe un’analisi di tutt’altra portata.
Questo articolo è più modestamente dedicato ad illustrare le condizioni socio-economiche dell’agricoltura durante le fasi di recessione economica, al fine di individuare le possibili conseguenze dell’attuale crisi economica per il settore agricolo.
In premessa all’articolo, si vuole subito contestare un’opinione dominante tra gli operatori economici – e purtroppo anche tra molti economisti – secondo la quale il settore agricolo sopporti meglio le conseguenze della recessione economica rispetto agli altri settori dell’economia.
Come vedremo più avanti, la teoria economica e l’insegnamento del “grande crollo” (1) del 1929 dimostrano esattamente il contrario.

2009 e 1929: alcune analogie tra le due crisi

L’opinione diffusa tra gli economisti è che non si possa operare un confronto tra la crisi del 1929 e quella attuale, in quanto l’attuale scenario socio-economico mondiale è totalmente diverso da quello di ottanta anni fa, tale da impedire qualsiasi paragone. In particolare una differenza rilevante viene attribuita al ruolo oggi esercitato dalle economie emergenti (Cina, India, alcuni Paesi dell’America Latina e dell’Africa) che non ha riscontro nella situazione del 1929.
Non si intende discutere e contestare questo approccio – seppure lascia molte perplessità – mentre si vuole porre l’attenzione su alcune analogie tra la recessione economica attuale e quella del 1929. L’esame di tali analogie non vuole essere esaustivo, ma aiutare a comprendere alcuni fenomeni odierni e a trarne le debite considerazioni. Le sorprese non mancano.
La prima analogia tra la crisi del 1929 e quella attuale è la sua origine nel mercato finanziario, derivante dal boom speculativo degli anni precedenti (2), che si è innestato su una situazione economica in squilibrio.
Sia nel 1929 che nel 2008-2009, fino al tracollo della borsa, il declino dell’attività economica non era evidente; non c’era motivo per aspettarsi un disastro. Nessuno è in grado di spiegare perché una grande orgia speculativa si sia verificata nel 1928 e 1929. Un dato però è certo: il credito era facile e la gente era indotta a chiedere prestiti per acquistare azioni ordinarie. Una situazione non dissimile da quella che si è verificata negli Usa dal 1997, con il governo Clinton, che ha facilitato l’accesso al credito attraverso il rilassamento dei criteri finanziari per l’erogazione dei mutui per l’acquisto della casa di proprietà (Makin, 2009) ed il governo Bush che ha mantenuto tale orientamento. Ne è scaturita – com’è noto – la bolla immobiliare, con la successiva diffusione dei relativi prodotti finanziari, lo sgonfiamento della bolla e i problemi legati ai cosiddetti titoli tossici.
Ancora, nel 1929, seppure lo squilibrio dell’economia non fosse evidente, vi era negli Usa, ormai da qualche anno, un’accelerata industrializzazione e terziarizzazione dell’economia che aveva depresso l’agricoltura; vi era il declino dopo il boom edilizio; tra il 1919 e il 1929, la produttività industriale era salita del 43% e la produttività del lavoro del 40%, a fronte di una prolungata insufficienza della domanda (Villari, 1980). In altre parole, la produzione industriale aveva superato i consumi e gli investimenti (Galbraith, 1966). Anche le difficoltà dell’agricoltura debbono ricondursi ad un aumento della capacità produttiva dovuto al progresso tecnico, aumento che si è scontrato con una domanda anelastica (Robbins, 1935). Questi segnali oggi sono chiari da leggere, ma nessun poteva prevederli allora.
Anche l’attuale crisi economica annovera tra le sue cause una serie di squilibri dell’economia mondiale: forte disuguaglianza di crescita tra Paesi occidentali e paesi asiatici, impennata del prezzo del petrolio, forte aumento degli investimenti nei paesi del sud-est asiatico, aumento delle importazioni statunitensi e delle esportazioni dei paesi emergenti (Liefert e Shane, 2009).
La seconda analogia – che si ricollega alla prima – è nell’assenza di segnali che facessero presagire una crisi così grave. Diceva Galbraith, riferendosi al 1929: “Nessuno era in grado di prevedere che la produzione, i prezzi, i redditi e tutti gli altri indicatori avrebbero continuato a contrarsi per tre lunghi lugubri anni”.
Nel 1929, come oggi, il tracollo non si verificò perché la borsa si rese conto improvvisamente che era in vista una grave recessione. Non era possibile prevedere una depressione quando il mercato crollò (Galbraith, 1966). L’unica cosa certa è che, ad un certo punto, il boom speculativo si è sgonfiato.
La terza analogia è l’entità della recessione seguita al crollo finanziario, che nessuno poteva neanche minimamente immaginare nella sua gravità. Dopo la crisi del mercato azionario del 1929, l’attività economica declinò sempre più e rimase ad un livello bassissimo per un intero decennio. Nel 1933 il prodotto nazionale lordo degli Usa fu inferiore di circa un terzo a quello del 1929. Solo nel 1937 il volume reale della produzione degli Usa ritornò ai livelli del 1929. L’occupazione scese a livelli drammatici e la situazione perdurò fino al 1940 (3).
La situazione odierna è altrettanto drammatica. Secondo gli ultimi dati di settembre 2009, il Pil dell’economia dell’Eurozona è stimato in contrazione del 3,9%. Lo prevede l’Ocse, che stima anche una contrazione dell’economia Usa del 2,8% e del Pil per l’Italia del 5,2%.
La quarta analogia riguarda le reazioni dei rappresentanti delle istituzioni. Poche settimane dopo il fatidico 29 ottobre 1929, l’allora Presidente degli Stati Uniti Hoover indisse una serie di riunioni sulla situazione economica. I maggiori industriali, i principali dirigenti delle ferrovie, i capi delle grandi aziende di servizi pubblici, i capi delle più importanti società edilizie e i presidenti delle organizzazioni degli agricoltori tenevano conferenze stampa, insieme al Presidente, esprimendo il loro giudizio positivo sulle prospettive economiche (4).
Nel marzo del 1930, il Presidente Hoover affermò di essere convinto che gli effetti sulla disoccupazione sarebbero finiti in una sessantina di giorni. Il tracollo continuò nei mesi successivi, con effetti molto gravi sulla disoccupazione.
Si potrebbe replicare che i politici e i rappresentanti delle organizzazioni economiche erano tenuti per il ruolo che ricoprivano ad assumere questo atteggiamento rassicurante – come lo sono oggi –, mentre si sarebbero dovute ascoltare le previsioni imparziali degli economisti. Eppure anche la Harvard Economic Society, nel gennaio 1930, dichiarò “Ci sono segni di un superamento della fase più dura della recessione”. E così, anche nei mesi successivi, si moltiplicarono le dichiarazioni degli economisti: “le prospettive sono favorevoli” (Galbraith, 1966).
Non troppo diversa è la situazione di oggi: il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha già più volte dichiarato che è iniziata la ripresa economica, analogamente alla totalità dei leader mondiali. L’Ocse, come le società mondiali di rating, ha recentemente presentato stime di crescita a breve termine. Si potrebbe obiettare che
negli ultimi mesi (aprile-settembre 2009) c’è stata un’effettiva ripresa del mercato azionario. A tal proposito, ricordiamo che nel gennaio, febbraio e marzo 1930, il mercato azionario mostrò una sostanziale ripresa. Dopodiché, salvo qualche eccezione, il mercato scese una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro fino a tutto il giugno del 1932. Un tracollo continuo della durata di tre anni (5). Pur nella convinzione che questa analisi non sia esaustiva – né abbia la pretesa di esserlo –, le analogie tra le due crisi del 1929 e del 2009 sono, purtroppo, rilevanti. Una tale considerazione non ha lo scopo di dimostrare che l’attuale congiuntura è per gravità analoga a quella del 1929 (6), ma di prendere atto di alcuni comportamenti comuni alle due crisi economiche.

L’agricoltura durante la recessione economica

La teoria economica dimostra che, durante la recessione economica, i prezzi agricoli tendono a diminuire in misura maggiore di quelli industriali (Hallet, 1983). Questa tendenza può essere spiegata dalla diversa inclinazione delle curve di domanda e di offerta. Nel settore agricolo, una caduta della domanda anche lieve, cioè una traslazione a sinistra della curva di domanda, si confronta con una curva di offerta agricola anelastica, che genera una lieve contrazione dell’offerta e una forte diminuzione dei prezzi. Nel settore industriale, un identico spostamento causa una forte caduta delle quantità prodotte e una contenuta diminuzione dei prezzi (Figura 1).
La rigidità dell’offerta in agricoltura è una condizione nota, derivante dai caratteri strutturali della produzione agricola: lunghezza dei cicli produttivi, carattere biologico della produzione, rigidità dell’offerta di molti fattori della produzione (come la terra), deperibilità dei prodotti o alti costi di conservazione, offerta puntuale legata alla stagionalità dei flussi di produzione.

Figura 1 - Effetti della caduta della domanda

 

Inoltre è possibile che la curva di offerta si sposti verso destra. Ciò potrebbe derivare dalla variazione dell’offerta di lavoro in agricoltura. Infatti, nei periodi di recessione economica, quando insorge la disoccupazione industriale, l’esodo dall’agricoltura diminuisce o addirittura si inverte come è successo negli anni Trenta negli Stati Uniti (Hallet, 1983). Questa situazione si sta verificando oggi in Italia (7), dove – più che in altri Paesi – l’agricoltura è una valvola di sfogo per chi è in cerca di occupazione, seppure precaria (Sportelli, 2009).
La bassa mobilità delle risorse in agricoltura impedisce che il settore si adegui rapidamente alle mutate condizioni di mercato. Ma la situazione si aggrava nei periodi di recessione. L’agricoltura reagisce con maggiore prontezza alle variazioni di prezzo nei periodi di prosperità rispetto ai periodi di recessione (De Stefano, 1985; Hallet, 1983).
Nei periodi di prosperità l’applicazione delle innovazioni sembra procedere più rapidamente, quindi l’effetto dell’aumentato esodo agricolo è più che compensato dall’accresciuto progresso tecnico.
Nei periodi di recessione, il trasferimento di risorse o addirittura l’uscita dal settore agricolo, come risposta alle mutate condizioni di mercato, non è agevole. Ciò costituisce un fattore di differenziazione del settore agricolo da quello industriale e rappresenta una delle ragioni più importanti della debolezza del primo rispetto al secondo.
Infatti le ragioni di scambio sono peggiorate per l’agricoltura durante la depressione degli anni Trenta a livelli devastanti (Eichengreen, 1994; Hallet, 1983) (figura 2). Le analisi svolte nel tentativo di spiegare questa relazione hanno rilevato che il peggioramento delle ragioni di scambio dei prodotti agricoli e alimentari, verificatosi nel periodo 1929-1932, è stato la conseguenza della diminuzione di reddito reale (Hallet, 1983).

Figura 2 - Ragioni di scambio (generi alimentari/manufatti), 1870-1960 (Fonte: Hallet, 1983)

Una ultima, ma non secondaria, considerazione: nei periodi di crisi economica peggiora il rapporto tra prezzi alimentari al consumo e prezzi agricoli alla produzione.
Nonostante la crisi economica, gli effetti sulla domanda dei prodotti alimentari sarà di piccola entità. La maggior parte dei consumatori ha uno standard di vita sufficientemente elevato, tale che la domanda di cibo non è particolarmente sensibile al cambiamento di reddito (Liefert e Shane, 2009).
Tuttavia, il calo dei consumi – seppure limitato – induce la distribuzione ad operare una diminuzione dei prezzi al dettaglio. Ne sono un esempio le varie iniziative della grande distribuzione che propongono offerte di prodotti alimentari quale contributo ai consumatori colpiti dalla crisi (8). Orbene, quando i prezzi al dettaglio diminuiscono, i margini (9) tendono a restare costanti, quindi la riduzione tende ad essere trasferita quasi completamente sui prezzi alla produzione.
Quando i prezzi al dettaglio calano, dunque, quelli alla produzione tendono ad una diminuzione proporzionalmente maggiore. Pertanto le conseguenze sul settore agricolo saranno più vistose di quanto possa apparire dall’esame del calo dei consumi e dei prezzi al dettaglio (De Stefano, 1985). Questa conclusione è dimostrata empiricamente dal fatto che, a fronte di una piccola diminuzione dei consumi alimentari, si osserva normalmente una rilevante diminuzione dei prezzi agricoli.

La crisi del 1929 e l’agricoltura

Negli Usa, i prezzi dei prodotti agricoli scesero del 54% negli anni successivi alla crisi del 1929 (Wecter, 1948). Nel 1930 arrivarono ad un terzo del prezzo rilevato nel 1910 (Hallet, 1983). I consumi alimentari diminuirono, gli stock aumentarono notevolmente, le esportazioni statunitensi crollarono (Timoshenko, 1933).
La rovina dei farmers fu quasi generale. Circa il 40% del loro reddito totale nel 1932 era divorato dagli interessi per i debiti, dalle tasse e dagli affitti del capitale fondiario. I produttori di mezzi tecnici, per lo più monopolisti, rovinarono i farmers sostenendo artificiosamente i prezzi dei fattori della produzione.
Dal 1929 al 1933 circa un milione di fattorie cambiarono padrone per vendita forzosa. I farmers rovinati diventavano salariati agricoli o andavano nelle città a ingrossare le file dei disoccupati, come documenta il romanzo Furore di Steinbeck (10) (Steinbeck, 2006).
Negli anni della crisi assunsero notevoli dimensioni le azioni dei farmers contro la vendita forzosa delle fattorie per mancato pagamento dei debiti e delle tasse. Centinaia di migliaia di farmers parteciparono alle marce della fame e in varie località si verificarono scontri armati con la polizia, che fece uso di bombe lacrimogene. Con l’aiuto dei disoccupati e degli operai agricoli, i farmers erigevano barricate sulle strade, fermavano gli autocarri delle grosse aziende agricole che si rifiutavano di associarsi al loro movimento, sequestravano senza pagarli i loro prodotti e li distribuivano gratuitamente ai bisognosi (Wecter, 1948).
Il Federal Farm Board ebbe l’incarico di sostenere il livello dei prezzi della produzione agricola, sotto il Governo Hoover. Nella seconda metà del 1931, il Board incominciò la vendita delle scorte accumulate, causando uno stato di completo squilibrio del mercato, un ulteriore danneggiamento dei farmers e un aggravamento della crisi nell’agricoltura.
Nella speranza di migliorare le condizioni di smercio dei prodotti sul mercato interno, il Governo statunitense varò nel giugno del 1930 una legge che stabiliva barriere doganali per le importazioni. Gli altri paesi capitalisti in risposta elevarono a loro volta le tariffe sull’importazione e lo smercio dei prodotti americani sui mercati stranieri divenne ancora più difficile.
Tutti i tentativi del Governo Hoover di superare la crisi si chiusero così con un completo fallimento (Wecter, 1948).
Il successivo governo del Presidente Roosevelt con l’Agricultural Adjustment Act del 1933 mise in atto un programma di riduzione della produzione, anche con la distruzione dei prodotti (Fossati, 1937). La riduzione della produzione era sostenuta dal pagamento di un’indennità. Dopo aver ricevuto dalle casse statali 500 milioni di dollari, il Board, nel corso di un anno e mezzo, accumulò oltre 250 milioni di staia di grano e circa 1,3 milioni di balle di cotone, senza però riuscire nel suo scopo fondamentale.
Le grandi linee della moderna politica agraria statunitense ed europea nacquero proprio dopo la Grande Depressione del 1929 (Saccomandi, 1991).

I limiti della politica agraria

Secondo un’opinione dominante, il ruolo della politica è decisivo per contrastare la crisi economica e i suoi effetti negativi. Questa convinzione nasce dall’ipotesi che le cause della crisi siano note, chiare e facilmente prevedibili. Alcuni ipotizzano addirittura un deus ex machina che manovra le leve della prosperità o della crisi. Ad esempio c’è chi attribuisce le cause dell’attuale crisi economica ai comportamenti di alcuni Governi o di alcuni importanti gruppi di interesse economico.
Anche nel mondo agricolo, esiste questo convincimento. Alcuni ipotizzano che la crisi dei prezzi agricoli dipenda dalle scelte di un Paese o di un gruppo di interesse (es. della grande distribuzione organizzata o delle multinazionali dell’agroalimentare) o dalle conseguenze di una determinata politica economica, ad esempio dell’Ue, degli Usa o del Wto.
In altre parole, si cerca l’artefice del disastro. Questo ragionamento porta molti a concludere che la politica economica – e nel nostro settore la politica agraria – possa rimuovere in tempi brevi le cause e le conseguenze della crisi.
Questa ipotesi illude molta parte del mondo agricolo, anche alimentata dalle vane promesse della maggior parte dei politici che confidano in soluzioni miracolose conseguenti alle scelte di politica agraria.
L’esercizio di molti politici di dichiarare l’esistenza di semplici vie d’uscita dalla crisi è pane quotidiano. Qualora le ricette messe in campo non funzionino, si attribuisce il loro insuccesso all’inettitudine dei livelli politici sovraordinati (ad esempio all’Unione europea o al Wto).
In realtà, queste convinzioni e questi atteggiamenti sono sbagliati per almeno tre ragioni.
In primo luogo, non esiste un deus ex machina della crisi. Galbraith sosteneva che nessuno fu responsabile del grande crollo di Wall Street del 1929, come nessuno manovrò la speculazione che lo precedette. Entrambi furono il prodotto della libera scelta e della libera decisione di migliaia di individui. Molti furono i protagonisti della crisi del 1929, molti contribuirono ad incoraggiare gli errori che precedettero quella crisi, ma nessuno la provocò (Galbraith, 1966).
Questo insegnamento è valido anche per la crisi attuale. Le analisi sulla bolla immobiliare negli Usa, sui titoli tossici o sui comportamenti dei manager delle banche conducono alla conclusione dell’esistenza di una concomitanza di fattori e di attori, in cui tanti operatori economici e politici, ma anche i singoli individui hanno contribuito al determinarsi dei presupposti della crisi. Ma nessun individuo singolarmente, seppure potente, ha provocato la crisi. Nessuna politica, neppure di una istituzione importante come il Governo degli Usa o il Wto, è stata la causa, seppure molti hanno contribuito a determinare la crisi.
In secondo luogo, non si riesce mai a sapere quando inizia o termina una crisi. Lo diceva bene Galbraith: “Nessuno, saggio o meno, ha mai saputo o sa ora quando si avvicina o scade il momento della depressione” (Galbraith, 1966).
Di conseguenza, l’utilità delle politiche preventive per contrastare la crisi si può conoscere solamente quando la crisi è già in atto. E l’efficacia delle politiche curative è minata dall’incertezza della durata della crisi. Il fallimento della politica agraria del 1930 del Governo Hoover – sopra citata – ne è un classico esempio.
In terzo luogo, non esiste una politica risolutiva in tempo di grave crisi economica. L’entità delle dinamiche e del valore economico della crisi è al di fuori della portata delle manovre di politica economica. A titolo di esempio, si cita il caso della crisi del settore lattiero-caseario. La riduzione del prezzo del latte nell’Unione europea dal marzo 2008 al marzo 2009 ha generato una riduzione di ricavi per gli allevatori di circa 17 miliardi di euro, pari a quasi il 50% del bilancio agricolo dell’Unione europea.
A seguito delle proteste dei produttori di latte europei, soprattutto tedeschi, la Commissione europea ha attivato tutti i possibili strumenti di intervento sul mercato, senza produrre un effetto significativo.
La crisi del settore lattiero-caseario è talmente grave che, anche in Italia, la politica ha voluto fornire un rilevante contributo nell’ambito degli strumenti a disposizione. Infatti, ben 40 milioni di euro annui dell’articolo 68 del Reg. Ce 73/2009 sono stati destinati al latte (27% del plafond totale delle misure accoppiate). Eppure, se tutti gli allevatori rientrassero nei requisiti per l’articolo 68, l’incidenza di tale impegno finanziario sarebbe di 0,35 centesimi di euro al chilo di latte: un impatto economico insignificante e inutile, perfino dannoso, se consideriamo gli impegni burocratici che graveranno sugli operatori e sulle amministrazioni per la gestione dell’articolo 68.
La politica economica ha le armi spuntate in periodi di forte crisi economica. Lo diceva bene Mariann Fischer Boel – commissario europeo all’agricoltura e allo sviluppo rurale – rispondendo alle proteste degli allevatori: “Credo che sia pericoloso e anche irresponsabile aumentare le aspettative dei produttori di latte su quello che possiamo fare. Potremmo essere tentati di trovare una soluzione immediata ma che sul lungo termine sarebbe impraticabile”. In altre parole, non pensate che la politica possa risolvere i vostri problemi (Sellaroli, 2009). Un pronunciamento di sano realismo, a fronte di tante vane promesse di molti politici.
Questa conclusione non intende dimostrare l’inutilità della politica agraria; tutt’altro, essa è fondamentale per la salvaguardia dei redditi e per la stabilità del settore agricolo. In questa sede, si intende evidenziare i limiti della politica d’intervento pubblico sui mercati agricoli, soprattutto nelle fasi di forte crisi dei prezzi. Per la salvaguardia dei redditi agricoli e delle economie rurali, risulta molto più efficace il ruolo stabilizzatore dell’attuale Pac. Il pagamento unico disaccoppiato (annuo e garantito) costituisce un sostegno di prim’ordine per le imprese, soprattutto in un contesto come quello attuale di scarsa liquidità e di restrizione del credito (Parlamento europeo, 2009).

Conclusioni

Il proposito di questo articolo non è quello di predire se la sventura dell’agricoltura post-1929 si possa ripetere nell’attuale crisi economica. Ma solamente quello di ricordare il contributo – ormai consolidato – della teoria economica sulla situazione dell’agricoltura durante le fasi di recessione economica e di raccontare cosa avvenne dopo il 1929. Entrambi, la teoria economica e le lezioni del 1929, sono dati oggettivi, a fronte di molte supposizioni (11) e molte speranze (il ruolo trainante delle economie emergenti) non suffragate da elementi reali. Tre sono i dati certi che emergono dalla nostra analisi:

  • l’agricoltura è il settore che subisce maggiormente le conseguenze negative della recessione economica: crollo dei prezzi agricoli, peggioramento della ragione di scambio, aumento del
  • rapporto tra prezzi alimentari al consumo e prezzi agricoli alla produzione;
  • nessuno può prevedere la durata della crisi, visto che l’insegnamento dell’analogo evento del 1929 non può far escludere che essa duri più di cinque anni;
  • la politica agraria – seppure importante nel limitare gli effetti negativi della crisi – non è in grado di fornire risposte adeguate di breve periodo rispetto alla gravità delle conseguenze della crisi economica.Nel passato, alcune scelte di politica, operate durante la recessione economica, hanno addirittura aggravato la crisi del settore agricolo.

A questo punto, non rimane che affinare la capacità imprenditoriale delle imprese per affrontare questa situazione. La crisi obbliga a riprogettare le strategie imprenditoriali, a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative.
Nel medio periodo, la crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità, quanto di più auspicabile nel settore agricolo italiano. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente (Benedetto XVI, 2009), tralasciando le illusioni di una facile ripresa economica o degli interventi risolutivi della politica agricola.

Note

(1) “Grande crollo” è il titolo utilizzato da Galbraith per il suo mirabile libro sulla crisi economica del 1929 (Galbraith, 1966).
(2) “In realtà, ogni spiegazione soddisfacente degli avvenimenti dell’autunno 1929 e del periodo successivo deve accordare un parte dignitosa al boom speculativo e al tracollo successivo” (Galbraith, 1966).
(3) Nel 1933, negli Usa, circa 13 milioni di persone si trovarono senza lavoro, all’incirca un lavoratore su quattro. Nel 1938 una persona su cinque si trovava ancora disoccupata (Galbraith, 1966).
(4) “Persino i capi delle organizzazioni degli agricoltori furono per l’occasione meno misantropi del solito. Dichiararono, dopo, di aver assicurato il Presidente che il morale del loro settore era più alto di quel che era stato per anni” (Galbraith, 1966).
(5) Il 3 settembre 1929, in pieno boom speculativo, l’indice New York Times chiuse a quota 542; il 13 novembre 1929 a 224; l’8 luglio 1932 esso segnò 58 (Galbraith, 1966).
(6) Le differenze tra le due crisi sono numerose, in particolare nella crisi attuale si segnala la maggiore interconnessione mondiale dell’economia e la forte azione dei Governi a sostegno all’economia.
(7) “La richiesta di lavoro proviene in primo luogo da ragazzi, maggiorenni e con basso titolo di studio, che sono in cerca di prima occupazione e non riescono trovare lavoro altrove, soprattutto adesso che l’industria e l’edilizia sono in crisi e non chiedono manodopera generica; si tratta quindi di forza lavoro non professionale, che può lavorare alle raccolte o nei magazzini ortofrutticoli”, intervista a Vito Vinci di Flai-Cgil Puglia (Sportelli, 2009).
(8) Un esempio è l’iniziativa con la quale – dal 14 aprile 2009 e per 12 settimane – Coop Adriatica e Coop Consumatori Nordest hanno offerto sostegno a coloro sui quali si è abbattuta la crisi occupazionale: lavoratori licenziati per crisi, in cassa integrazione o con un contratto di solidarietà. Con lo slogan “Il 10% di sconto sulla spesa a chi, oggi, sta pagando di più”, il consumatore usufruisce di uno sconto del 10% su una spesa settimanale fino a 60 euro, che consente ai beneficiari un risparmio massimo di 72 euro nell’intero periodo.
(9) Il margine è la differenza tra il prezzo al consumo e il prezzo alla produzione.
(10) John Steinbeck è premio Nobel per la letteratura del 1962. Furore è considerato il suo capolavoro, pubblicato nel 1939 a New York, simbolo della grande depressione americana degli Anni Trenta. La vicenda narra la storia di una famiglia di agricoltori che, costretta dalla crisi, dalla siccità e dalla miseria, deve abbandonare l’Oklahoma per tentare la fortuna in California alla ricerca di un lavoro.
(11) In conclusione del suo libro Galbraith diceva: “Una della importanti lezioni di quell’anno [1929, ndr) deve essere ormai chiara: la sventura attende particolarmente e personalmente coloro che presumono di conoscere per rivelazione il futuro” (Galbraith, 1966).

Riferimenti bibliografici

  • Benedetto XVI (2009), Caritas in veritate, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano.
  • De Stefano F. (1985), Principi di politica agraria, Il Mulino, Bologna.
  • Eichengreen B. (1994), Gabbie d’oro. Il “gold standard” e la Grande depressione 1919-1939, Laterza, Bari.
  • Fossati E. (1937), New deal. Il nuovo ordine economico di F. D. Roosevelt, CEDAM, Padova.
  • Galbraith J.K. (1966), Il grande crollo, la crisi del 1929, Etas Kompass, Milano.
  • Hallet G. (1983), Economia e politica del settore agricolo, Il Mulino, Bologna.
  • Liefert W.M., M.Shane (2009), The World Economic Crisis and U.S. Agriculture: From Boom to Glomm?, Choices, 1st Quarter 2009, 24(1).
  • Makin J.M. (2009), A Government failure, not a market failure, The Wall Street Journal, July 1, 2009, New York.
  • Parlamento europeo, Direzione Generale Politiche Interne dell’Unione (2009), La Pac di fronte alla crisi economica e finanziaria, IP/B/AGRI/NT/2009-02, PE 408.971, Bruxelles.
  • Robbins L. (1935), Di chi la colpa della grande crisi?, Einaudi, Torino.
  • Saccomandi V. (1991), Istituzioni di economia del mercato dei prodotti agricoli, Reda, Roma.
  • Sellaroli C. (2009), Per sostenere il prezzo del latte l’Europa ha le armi spuntate, L’Informatore Agrario, n. 26.
  • Sportelli G.F. (2009), Ritorno alla terra contro la crisi, Terra e Vita, n. 16. Steinbeck J. (2006), Furore, Bompiani, Milano.
  • Timoshenko V.P. (1933), World agriculture and the depression, University of Michigan, Ann Arbor, Michigan.
  • Villari L. (1980), L’economia della crisi. Il capitalismo dalla “grande depressione” al “crollo” del ‘29 , Einaudi, Torino.
  • Wecter D. (1948), The age of the great depression, The Macmillan company, New York.
Tematiche: 
Rubrica: 

Commenti

Il mio parere è necessario FAR STUDIARE i ragazzi su queste CRISI,
devono rendersi conto senza vivere nelle nuvole.

Commento originariamente inviato da 'Natalina Milani' in data 04/01/2013.