Principi, valori e standard: il movimento biologico di fronte alle sfide della crescita

Principi, valori e standard: il movimento biologico di fronte alle sfide della crescita

La nuova realtà dell’agricoltura biologica: la crescita del comparto e la diversificazione degli interessi (1)

Il regolamento 2092/91 (relativo al metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e alla indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari) è stato il primo strumento di regolamentazione dell’agricoltura biologica nell’Unione Europea (UE). Esso ha costituito la base per l’introduzione del sostegno all’agricoltura biologica nel 1993, tramite le misure agro-ambientali previste nel regolamento 2078/92 (metodi di produzione agricola compatibili con le esigenze di protezione dell’ambiente e con la cura dello spazio naturale), sostituito poi dal regolamento 1257/99 (sostegno allo sviluppo rurale). Dalla sua approvazione, le superfici certificate come biologiche sono cresciute enormemente nei paesi dell’UE. Nel 1985, la produzione biologica certificata proveniva da soli 100.000 ha (incluse le aree in conversione) e 6300 imprese (CEC 2004). Nel 2006, nell’UE a 27, la produzione biologica conta su 7 milioni di ettari certificati e oltre 190 mila imprese. L’Italia è il paese con maggior superfici: più di 1 milione di ha, circa il 18% della superficie biologica dell’UE a 25 (Lampkin 2007; EC 2007).
Nel 1993, nell’Europa a 15, le misure agro-ambientali coprivano 174.000 ha; nel 2003, tale superficie è passata a più di 36 milioni di ettari. Nello stesso periodo (1993-2003) il sostegno all’agricoltura biologica o in conversione aumenta dallo 0,5 al 7% del totale delle spese per le misure agroambientali, con grandi variazioni tra i diversi stati: 67% in Svezia, 37% in Danimarca, 26% in Olanda, 22% in Italia, 20% nel Regno Unito. Nel 2003, circa il 50% di tutta la superficie coltivata con metodi biologici riceveva un sostegno dalle misure agroambientali (CEC, 2005).
La crescita del biologico ha condotto ad una realtà più diversificata, grazie alla ristrutturazione delle imprese e dei mercati e all’ingresso nel comparto dei grandi attori dell’agro-alimentare. Queste rapide trasformazioni hanno colto di sorpresa lo stesso movimento del biologico, il quale ha visto venir meno l’omogeneità della sua base sociale e perdere la sua natura di movimento alternativo nato sulla spinta di forti motivazioni ideali. Altri interessi motivano i produttori, i consumatori, i certificatori, centrati non solo sulle spinte ideali, ma anche su ragioni economiche e strategie di marketing, su valori estetici ed edonistici.
Diversi autori hanno cominciato a parlare di “convenzionalizzazione” di un’agricoltura biologica (Buck et al. 1997; Guthman 2004; Lockie e Lyons 2006), che non sarebbe più espressione di un modo alternativo di produrre, ma rifletterebbe gli stessi interessi e valori del sistema agroalimentare industriale. Dalle critiche è emerso progressivamente il bisogno di un dibattito sui valori e sui principi fondanti dell’agricoltura biologica, così come un’esigenza diffusa di rivedere il vecchio regolamento 2092/91/CE, che aveva accumulato ormai numerosi emendamenti. Si è giunti così all’approvazione di un nuovo regolamento, il Reg. CE 834/2007, che entrerà in vigore il 1° gennaio del 2009 (Agostino e Fonte 2007).
L’IFOAM, la federazione internazionale delle associazioni biologiche, ha accompagnato costantemente il processo di revisione del vecchio regolamento, pubblicando, nelle diverse fasi del percorso, documenti e newletters di commento (IFOAM 2006). Inoltre l’Unione Europea (UE) ha finanziato il progetto di ricerca ‘EEC2092/91 Revision’ (SSPE-CT-2004-502397), che ha individuato e approfondito il tema dei principi e dei valori che dovevano informare e ispirare le nuove regole.
Nel rapporto finale di questa ricerca (Padel et al. 2007), gli autori identificano i principali problemi, che hanno condotto alla “convenzionalizzazione”, nell’intensificazione produttiva dell’agricoltura biologica e nella sua dipendenza dall’agricoltura convenzionale. Una soluzione ai problemi emergenti è individuata nell’agricoltura locale, anche se la sua diffusione è valutata criticamente, piuttosto che accettata come una nuova ‘ortodossia’.
In questo breve articolo cercheremo di analizzare le principali critiche mosse alle pratiche attuali dell’agricoltura biologica e le indicazioni circa le possibili soluzioni alla crisi dei valori che le sottende, riportando brevemente gli argomenti e i dati raccolti nella ricerca citata.

Intensificazione e specializzazione della produzione biologica

L’intensificazione della produzione biologica si esprime attraverso una crescita delle dimensioni e della specializzazione delle aziende, che in tanti casi non trova limiti negli standard stabiliti nel regolamento 2092/91. Ad esempio, non ci sono standard riguardo alla provenienza dei mangimi negli allevamenti di maiali e polli, al contrario di quanto avviene per gli allevamenti da latte, dove il 50% delle razioni animali deve essere prodotto in azienda. Le aziende specializzate non rispondono all’ideal-tipo di un’azienda biologica mista, che chiude il suo ciclo produttivo in una visione ecosostenibile dell’attività primaria.
L’esempio più citato è quello dell’Olanda, dove tra la fine degli anni 90 e l’inizio del 2000, sotto la spinta della crescita del mercato e della disponibilità di aiuti si è verificata un’ondata di conversioni al biologico. L’ingresso dei supermercati e l’esaurirsi della spinta ideale dei pionieri sono stati accompagnati dall’aumento delle esportazioni e dalla trasformazione delle tecniche produttive, con notevole uso di fertilizzanti extra aziendali. Questo è avvenuto a scapito di metodi e sistemi agronomici di tutela e miglioramento della fertilità naturale dei suoli (rotazioni, sovesci, compostaggio dei residui organici aziendali), forse più complessi, ma sicuramente di minore impatto energetico ed ambientale.
La dimensione media delle aziende biologiche nell’UE è aumentata da 16 ha nel 1985 a 39 ha nel 2005 (CEC 2007). La media nasconde naturalmente situazioni differenziate: in Italia, Austria e Grecia la dimensione aziendale è molto inferiore a quella di altri stati europei. Secondo un’inchiesta condotta in 11 stati dell’UE presso 550 agricoltori biologici, inoltre, solo il 16% considera la propria azienda un’impresa mista, con un reddito prodotto da diverse fonti.
In Danimarca non solo le aziende biologiche sono specializzate in produzione animale o vegetale, ma allevamento e coltivazioni hanno luogo in regioni diverse del paese. In Olanda l’allevamento biologico di maiali e polli è dominato da grandi aziende che importano la maggior parte (70%) del mangime dall’estero e vendono lo stabbio prodotto. Fino al 1995 l’allevamento di maiali e polli avveniva in aziende biologiche relativamente piccole e non specializzate; gli animali erano allevati in unità di piccole dimensioni e l’allevamento era integrato in aziende miste. La macellazione avveniva in piccoli macelli indipendenti e la vendita delle uova attraverso negozi specializzati o direttamente al consumatore. Dal 1995 in poi le regole sanitarie sono diventate più rigorose, ostacolando in modo particolare le piccole aziende. Per quel che riguarda l’allevamento suino, nel 1999 il governo olandese ha spinto verso l’intensificazione della produzione tramite un accordo tra produttori, trasformatori e distributori. L’ingresso nel comparto di una grande impresa di trasformazione delle carni (Dumeco) ha provocato numerose conversioni, mentre le principali imprese trasformatrici hanno imposto, come condizione per il ritiro del prodotto, un numero minimo di capi e criteri qualitativi sempre più stringenti, che hanno spinto alla specializzazione.
Nel caso della produzione di uova, la produzione su larga scala domina il comparto in Olanda. Nel 2003 il numero medio di galline ovaiole per azienda è di 6400; più del 50% dei capi sono in aziende con più di 9000 capi. In media queste aziende hanno 7,5 ha di terreno; la maggior parte di esse vende lo stabbio prodotto ad altre aziende biologiche ed esporta il 70% delle uova prodotte in Germania (Padel et al. 2007).
L’intensificazione produttiva ha effetti negativi dal punto di vista ambientale e contraddice i principi fondanti del movimento biologico. Specializzazione e intensificazione nell’allevamento animale, soprattutto di suini e polli, comportano l’utilizzo di mangimi biologici che arrivano da lunghe distanze, così come l’utilizzo di input non-biologici, pur nei limiti delle proporzioni consentite. L’alta concentrazione degli animali nelle aziende comporta un carico di nutrienti per unità di superficie dannosa per i terreni e le falde acquifere; il trasporto su lunghe distanze di input e prodotti finali ha come conseguenza maggior consumo di energia fossile e inquinamento ambientale; la concentrazione degli allevamenti diminuisce il benessere degli animali e impedisce cure individualizzate.

Dipendenza dall’agricoltura convenzionale e integrità dell’agricoltura biologica

Nonostante l’aspirazione a costituirsi come un sistema produttivo alternativo, il biologico è dipendente dal sistema agroindustriale convenzionale in varie fasi e passaggi della produzione, della trasformazione, della distribuzione e dell’approvvigionamento degli input. Questo legame, causato in parte dalla stessa intensificazione e concentrazione della produzione biologica, aumenta il rischio di contaminazioni e frodi, oltre che intaccare la fiducia del consumatore nell’integrità del processo e nella salubrità del prodotto biologico.
Nel 2006, nell’UE, ci sono oltre 190.000 imprese nel comparto delle produzioni biologiche (Lampkin 2007). Una buona parte delle unità di trasformazione, distribuzione e produzione di input non è dedicata esclusivamente al biologico, ma opera anche in altre catene di offerta. Le stesse strutture di trasformazione dei prodotti dell’agricoltura convenzionale lavorano anche i prodotti dell’agricoltura biologica, sebbene con accorgimenti che assicurano separazione spaziale e/o temporale dei cicli di produzione, rintracciabilità e prevenzione delle possibili contaminazioni. La dipendenza dal sistema convenzionale è maggiore, quanto più grandi e specializzate sono le aziende e più intensiva è la produzione. Ad esempio la concentrazione e l’intensificazione produttiva degli allevamenti di maiali e polli certificati in Olanda e nel Regno Unito richiedono più mangime di quanto prodotto con metodi biologici, provocando quindi scarsità sul mercato. L’eccesso di domanda non ha tuttavia prodotto un aumento delle superfici coltivate con cereali destinati a mangime, anche perché il regolamento 2092/91, per questi allevamenti (non-erbivori), non pone limiti all’approvvigionamento esterno, raccomandando soltanto che una parte (non specificata) del mangime derivi dalla stessa azienda.
La crescita del comparto ha favorito l’ingresso dei supermercati, con la conseguenza che attualmente una grande parte delle produzioni biologiche è venduta tramite la grande distribuzione organizzata. La quota di produzione biologica che passa attraverso le grandi catene commerciali supera l’80% in Gran Bretagna e Danimarca, mentre rimane sotto il 50% in Germania.
Per rendere operativamente possibile l’agricoltura biologica, specialmente nelle aree di minore diffusione, il regolamento 2092/91 contiene un certo numero di deroghe per l’uso di input di provenienza non-biologica (fertilizzante organico, mangimi, sementi, varietà e razze da riproduzione).
Di recente, alcuni studi hanno verificato la possibilità di autosufficienza dell’agricoltura biologica in fatto di mangimi. Si sostiene che ormai, dal punto di vista della nutrizione degli animali, nell’UE a 25 paesi non esiste più la necessità di dipendere dal comparto convenzionale se non per le leguminose che forniscono proteine di alta qualità. Permangono tuttavia delle difficoltà derivanti dal fatto che l’allevamento biologico è concentrato in aree diverse da quelle specializzate nelle produzioni foraggiere.
Domanda e offerta di alimenti per bestiame sono distribuite in modo difforme nello spazio e quindi emerge un problema di distanza e di convenienza del trasporto. D’altra parte, come abbiamo riportato per il caso olandese, le grandi aziende specializzate, in particolare nel comparto degli allevamenti di maiali e polli, importano già la maggior parte degli ingredienti alimentari per i mangimi da lunghe distanze, dall’America Latina e dall’Estremo Oriente, con implicazioni non solo economico-finanziarie, ma anche di costo energetico.
La dipendenza del biologico dall’agricoltura industriale convenzionale (rispetto alla quale voleva porsi come ‘alternativa’) è strettamente legata alla intensificazione e specializzazione produttiva. Oltre ad aumentare il rischio di contaminazioni e di frodi, con la conseguente perdita di fiducia del consumatore nell’integrità e nella salubrità del prodotto biologico, la dipendenza dagli input non biologici e dal comparto agricolo industriale, così come l’intensificazione e la specializzazione produttiva contraddicono i valori di un’agricoltura biologica che mira a produrre non solo evitando di inquinare, ma ristabilendo, attraverso un processo produttivo che chiude il ciclo dei nutrienti, la fertilità della terra.

Il movimento post-biologico: l’agricoltura locale come nuova frontiera

La crescita del biologico negli ultimi venti anni ha trasformato il settore da una rete di produttori e consumatori coordinati tra loro in modo informale e a livello locale in un sistema globalizzato di commercio regolato da norme internazionali. Il regolamento 2092/91 ha avuto un ruolo importante nel garantire, tramite la certificazione e l’etichettatura, condizioni di concorrenza leale e trasparente nel mercato unico europeo.
Tuttavia, consumatori e operatori manifestano la preoccupazione che questa evoluzione abbia portato con sé un’erosione degli standard e dei valori dell’agricoltura biologica, una eccessiva istituzionalizzazione e burocratizzazione (norme, regole, certificazione) e una eccessiva attenzione all’aumento della scala di produzione e all’espansione degli sbocchi commerciali.
Come soluzione ai problemi emersi, il movimento ‘post-biologico’ (Moore 2004) propone un modello basato sulla “prossimità”, ossia su un legame personalizzato, più diretto tra produttore e consumatore. In questo modello, il discorso sulla sostenibilità si allarga a comprendere tutte le diverse fasi della filiera, oltre che le diverse dimensioni ambientali, sociali ed economiche. Per quel che riguarda la sostenibilità ambientale, oltre che alle fasi strettamente produttive (agricola e trasformazione), l’attenzione si estende alla considerazione del sistema di distribuzione e trasporto delle merci. La dimensione sociale è inoltre considerata in modo più esplicito di quanto non avvenga nel movimento biologico. Il rapporto diretto, di prossimità, tra produttore e consumatore è ritenuto importante sia dal punto di vista economico (la vendita diretta al consumatore aumenta il reddito degli agricoltori locali) che sociale, come base del rapporto di fiducia tra produttore e consumatore, che, in tal modo non ha necessità di essere mediato tramite la certificazione (Fonte 2006).
I mercati degli agricoltori sono l’iniziativa più diffusa e più nota nell’ambito di questa visione, ma altre iniziative comprendono ad esempio la Community Supported Agriculture negli Stati Uniti (un accordo tra agricoltori e consumatori, secondo il quale i consumatori pagano un importo annuale e hanno in cambio un cesto di prodotti freschi ogni settimana) e i gruppi di acquisto solidali in Italia.
I vantaggi del modello basato sull’agricoltura locale o di prossimità vanno dall’aumento del reddito dell’agricoltore, tramite la diminuzione dei costi delle mediazioni, alla riduzione dell’inquinamento nella fase della distribuzione (meno miglia percorse dalle merci), al rispetto del ciclo vitale nel sistema di produzione agricolo, all’aumento di tracciabilità, al miglioramento della qualità del prodotto, fino alla rivitalizzazione delle comunità locali. L’agricoltura locale è vista anche come un’alternativa o una resistenza alle forze della globalizzazione, che erode la capacità delle comunità locali (paesi, regioni, nazioni) di costruirsi i propri percorsi di sviluppo.
Generalmente, il legame di prossimità non è esplicitamente considerato negli standard del biologico, tuttavia non è estraneo a questo mondo. In un’indagine su 181 consumatori e 33 produttori biologici in Gran Bretagna, Padel e Foster (2006) hanno trovato che sia i produttori che i consumatori associano l’agricoltura biologica al mercato locale e vedono un valore nella riduzione della distanza che un alimento percorre prima di arrivare sul piatto del consumatore. Nella scelta di cosa produrre o cosa mangiare, tuttavia, il valore della prossimità entra in un bilancio complesso insieme con altri valori e vincoli (efficienza, scala, convenienza).
La filiere corte regionali aiuterebbero sicuramente ad affrontare alcuni dei problemi posti dall’intensificazione e dalla specializzazione delle aziende del comparto biologico, tuttavia, secondo Alroe e Kjeldsen (2006), la diffusione di questo modello comporterebbe “conseguenze drammatiche per l’attuale struttura della produzione e dei mercati biologici in Europa”. Un limite di 100 Km sul trasporto dei mangimi ad esempio porrebbe fine all’allevamento di polli nelle zone di montagna dell’Austria. Inoltre, l’adesione ai valori della prossimità non può essere acritica, fino a trasformarsi in una nuova ortodossia. Non sempre prodotto locale è sinonimo di migliore qualità organolettica o ambientale né di relazioni sociali più giuste.
Una eventuale internalizzazione negli standard dell’agricoltura biologica del valore della prossimità, pone diversi problemi: definire significati e criteri della provenienza locale dei prodotti (e degli input), identificare una misura adeguata della prossimità, individuare le forme migliori per regolamentarla.
L’espressione ideale della provenienza locale è data dall’azienda agrobiologica, che produce, lavora, confeziona e vende direttamente i propri prodotti, presso uno spaccio aziendale o mercatini locali. Il concetto può essere esteso anche a quelle unità di trasformazione che ricavano dal contesto locale le principali materie prime (quelle determinanti ai fini della qualità dei prodotti finali), esercitando anche una funzione di coordinamento, controllo e verifica dei processi a monte della lavorazione e dell’immissione dei prodotti al consumo.
La misura più semplice a cui si fa riferimento nei discorsi sul modello di prossimità è la distanza del trasporto della merce dal produttore al consumatore finale. Sebbene sia una misura relativamente semplice e non tenga conto della complessità dell’organizzazione della produzione (ad esempio: come considerare la distanza percorsa dagli input utilizzati nel processo produttivo?), un limite di questa natura rappresenterebbe una forma di protezione ai sistemi di produzione regionale e marginali. Una misura più sofisticata potrebbe tener conto anche dei diversi stadi e dei diversi anelli della catena produttiva e delle forme di trasporto (su gomma, aereo, nave, ferrovia, ecc.).
Per quel che riguarda le forme della regolamentazione, sono state identificate due possibilità: indicare la misura scelta sul prodotto accanto all’etichetta del metodo biologico o includerla tra gli standard (regolamentati o volontari) richiesti dal metodo biologico. D’altra parte esistono già diverse iniziative finalizzate alla regolamentazione e alla certificazione dei prodotti biologici provenienti da esperienze di “filiera corta”; basti pensare allo standard “Biologico di fattoria” di ICEA (Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale) e CSQA (Ente italiano di certificazione accreditato Sincert), o al disciplinare AIAB per la certificazione dei mercatini biologici, ecc.
C’è da chiedersi, infine, come tali misure si pongono di fronte ai problemi dello sviluppo dei paesi più poveri, da un lato, alla costruzione del mercato unico europeo e alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dall’altro.

I principi e i valori del biologico

Abbiamo fatto riferimento ai principi e ai valori che costituiscono la base dell’identità del movimento biologico: ma quali sono esattamente questi principi e valori? Nel 2004 l’IFOAM ha costituito una task force con il compito di guidare un processo di revisione dei principi dell’agricoltura biologica.
Il processo di consultazione ha identificato quattro principi fondanti, approvati nell’assemblea generale del settembre 2005, ad Adelaide, Australia (IFOAM 2005):

  • il principio di salute, secondo cui l’agricoltura biologica deve sostenere e migliorare la salute del suolo, delle piante, degli animali, degli uomini e del pianeta come uno e indivisibile;
  • il principio di ecologia: l’agricoltura biologica deve basarsi sui sistemi ecologici e sui cicli di vita, lavorare secondo i loro principi, emularli e cercare di sostenerli;
  • il principio di fairness, secondo cui l’agricoltura biologica deve basarsi su relazioni che garantiscano rispetto per l’ambiente come bene comune e per le opportunità di vita delle persone;
  • il principio di cura: l’agricoltura biologica deve essere gestita secondo il principio di precauzione assumendo le proprie responsabilità di fronte all’ambiente e alla salute e al benessere delle persone coinvolte nella filiera, così come delle generazioni presenti e di quelle future.

Il principio della prossimità o del legame locale tra produttore e consumatore non è esplicitamente formulato, tuttavia si ritiene che sia implicito nella combinazione del principio di ecologia, nella misura in cui i cicli di vita ecologici sono specifici ad una località (nella esplicitazione del principio di ecologia si legge: “Organic management must be adapted to local conditions, ecology, culture and scale”), e nel principio di fairness, caratterizzato da “equità, rispetto, giustizia e custodia del mondo comune, tra gli uomini e nelle relazioni con gli altri esseri viventi (….). L’agricoltura biologica dovrebbe fornire a tutti coloro che ne sono coinvolti una buona qualità di vita e contribuire alla sovranità alimentare e alla riduzione della povertà” (IFOAM 2005; traduzione dall’inglese degli autori).
Il regolamento CE 834/2007 ribadisce in modo più chiaro i principi e gli obiettivi dell’agricoltura biologica, come “sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione dell’agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali, l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali”. Nel titolo II, interamente dedicato agli “Obiettivi e principi”, si pongono alla base della produzione biologica “la progettazione e la gestione appropriate dei processi biologici fondate su sistemi ecologici che impiegano risorse naturali interne ai sistemi stessi”, la limitazione dell’uso di fattori di produzione esterni o ottenuti tramite sintesi chimica, l’esclusione dell’uso di OGM e dei prodotti derivati o ottenuti da OGM. Rispetto ai principi di fairness e di cura, probabilmente più difficili da tradurre in norme e pratiche di controllo, i principi di ecologia e salute sono affermati in modo più esplicito e dettagliato.
Tuttavia, nella realtà attuale del mondo biologico, caratterizzato da una enorme diversità in termini di interessi economici e sociali, il punto cruciale da valutare è come saranno risolti i conflitti tra interessi e valori e quale gerarchia di valori si affermerà nella traduzione dei principi in norme attuative. Già l’articolo nove sul divieto d’uso degli OGM, (che accetta un livello di contaminazione accidentale fino alla soglia dello 0,9%) ha sollevato numerose polemiche. Trovare e concordare i limiti e le soglie che permettano allo stesso tempo di salvaguardare i valori di base del movimento biologico senza ostacolare la sua crescita sarà la sfida su cui valutare il nuovo regolamento dell’UE, così come il movimento del biologico nei prossimi anni.

Note

(1) Gli Autori desiderano ringraziare gli anonimi referees della rivista per gli ottimi commenti, pur conservando intera la responsabilità di quanto scritto.

Riferimenti bibliografici

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